Benvenuti nel sito di Giuseppe Pungitore, dell'ing. Vincenzo Davoli, di Mimmo Aracri ed Antonio Limardi, punto d'incontro dei navigatori cibernetici che vogliono conoscere la storia del nostro meraviglioso paese, ricco di cultura e di tradizioni: in un viaggio nel tempo nei ruderi medioevali. Nella costruzione del sito, gli elementi che ci hanno spinto sono state la passione per il nostro paese e la volontà di farlo conoscere anche a chi è lontano, ripercorrendo le sue antiche strade.

P. Gian Franco Scarpitta

San Francesco di Paola

La vita e i tratti di spiritualità

INTRODUZIONE

  Questo lavoro su San Francesco di Paola non è il primo e neppure sarà l'ultimo, essendovi stati nell'Ordine dei Minimi Religiosi molto ferventi nello studio e nella riflessione su questo grande Santo, ma si vuole comunque apportare un ulteriore contributo alla conoscenza di questo pio e devoto eremita calabrese attraverso l'esposizione delle tappe della sua vita a cui faranno seguito due capitoli che tenteranno di interpretare la vita stessa del Santo e l'opera alla luce del dono carismatico con cui Egli ha edificato la Chiesa e della persistenza di questo dono per quanto riguarda l'accrescimento della nostra edificazione in vista della perfezione cristiana.

  Leggere e meditare le tappe della vita di San Francesco di Paola è molto bello e affascinante, poiché si scopre di avere a che fare con uomo che in tutti gli ambiti e i contesti non soltanto mostra di coltivare in prima persona la sua predilezione per il divino e di incentrare su Dio ogni attimo della sua vita con la conseguenza di copiosi frutti di arricchimento spirituale e di costanza nel bene, ma sa rendersi anche entusiasta apportatore del valore del primato di Dio presso tutti gli uomini, per mezzo di un costante richiamo alla vita di conversione e alla realizzazione di ogni esperienza secundum Deum, poiché in definitiva l'uomo di tutti i tempi avverte inconsapevolmente la necessità del trascendente per uscire dalle disilussioni dell'effimeratezza del vissuto attuale: Dio è la necessità  primaria di ogni uomo che voglia realizzare se stesso e il ricorso a Lui non può che essere visionato come irrinunciabile. La vita di san Francesco di Paola, anche nei particolari dei miracoli e degli eventi prodigiosi (tantissimi) che a lui si attribuiscono è sempre stata un richiamo alla riscoperta di Dio come valore necessario colto nel carattere dio pura positività e garanzia, perchè in effetti Egli si mostra come elemento di qualificazione dell'uomo.

  Nella sua vita eremitica e nell'intensità della dedizione franca e risoluta alla preghiera, Francesco esperì in prima persona l'amore di Dio e la grandezza esperibile della familiarità con lui e di queste si rese apportatore attraverso una vita di continua testimonianza presso la gente di ogni estrazione sociale e di differenti luoghi ed etnie, avendo egli vissuto sia nella Calabria semplice agricola e contandina, sia nell'altezzosa Francia della corte regale.

  Nella prima parte di questo lavoro percorreremo le tappe della vita del Santo, aiutati dagli ausili di non pochi biografi e delle testimonianze di coloro che deposero ai vari Processi di beatificazione del Santo; la seconda e terza parte riguarderà invece una serie di riflessioni sui vari tratti della spiritualità di San Francesco di Paola eremita e Fondatore, in primo luogo sul valore della penitenza  evangelica con cui anche oggi si distingue il suo Ordine religioso, anche è soprattutto alla luce delle attuali direttive della chiesa e nel raffronto con il comune patrimonio della teologia e della spiritualità di cui abbiamo sempre fatto tesoro. Tale caratteristica della penitenza  è quella costitutiva del richiamo a Dio come primaria necessità dell'uomo odierno.

1

FRANCESCO DI  PAOLA: TAPPE DELLA SUA VITA

 

  E' risaputo che la Rivelazione si chiude con l'ultimo apostolo e che il Verbo Incarnato di Dio ne è la pienezza; quindi tutto quello che in Cristo il Padre ci ha voluto rivelare è sufficiente a guadagnarci la salvezza e la vita eterna. Ciò nondimeno Dio ha voluto collocare nella storia alcune persone che percorrendo passo passo le tappe della nostra vita con la loro testimonianza e la radicalità della scelta cristiana hanno ottenuto che noi fossimo ulteriormente orientanti verso lo stesso Verbo perchè con più speditezza ne seguissimo le orme. Essi stessi sono stati infatti un vangelo vivente e radicato, avendo vissuto la perfezione nell'imitazione piena del Redentore. Si tratta dei Santi, che con la loro vita risvegliano in noi l'attenzione e l'amore per Gesù, non alterando il suo messaggio e anzi riproponendolo costantemente salvaguardandone l'integrità per la sua messa in atto a beneficio del popolo di Dio in tutte le dimensioni e i contesti epocali.

  Il Santo non si sostituisce a Cristo quanto alla sua onnipotenza e alla redenzione né è oggetto primario della nostra fede; piuttosto ci rimanda al Salvatore sotto un invito particolare che riecheggia nell'apostolo Paolo: “Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo.”

  Francesco di Paola fu uno di questi Santi che si aggiungono alle annoverazioni del tesoro spirituale della Chiesa soprattutto per la sua vita virtuosa e fondata nella continua ricerca del Signore nello spirito della “minimezza” e dell'annientamento dal quale scaturiscono sempre amore esplicito e carità verso i fratelli.

  Ripercorrere le tappe della sua vita è molto entusiasmante e avvincente, poiché ci si immedesima in un mondo speciale di amore verso Dio che viene sempre ricompensato, anche a proposito del più piccolo miracolo. Si riscontra nella vita di Francesco come Dio dalla piccolezza è capace di trarre grandi cose a beneficio dell'umanità e intanto ci si avvale di una ricca testimonianza di valori che vengono incarnati effettivamente, anche se di fatto messi in discussione.  

1.1 Dalla culla alla grotta e dintorni

  Voler rinvenire in Francesco di Paola una primaria spiritualità francescana acquisita è piuttosto azzardato e poco conforme alle fonti che si hanno a disposizione, poiché il Paolano non ebbe propriamente ad abbracciare e far sua una dimensione di vita spirituale secondo la proposta del Patriarca di Assisi; tuttavia è innegabile che un primitivo orientamento francescano vi sia stato, almeno nella sua formazione cristiana iniziale.

  Nacque infatti nella Contrada Terravecchia di Paola, località della Calabria sita nella zona del Bruzio, il 27 Marzo 1416 da una famiglia molto religiosa, devotissima a San Francesco di Assisi in onore del quale ricevette il nome di Francesco. I genitori, Giacomo Martolilla e Vienna da Fuscaldo, persone semplici e di umili condizioni anche se proprietari di poderi e di appezzamenti agricoli, svolgevano vita prevalentemente rurale ed erano molto zelanti nella fede e nella religiosità popolare che veniva esternata soprattutto nella pia devozione al Santo Patrono Assisiate e non è fuori luogo pensare che avessero inculcato nel piccolo Francesco, accanto agli elementi fondamentali della dottrina e della pedagogia cristiana, anche l’amore per questo Santo umbro che era sempre stato oggetto della loro venerazione, così come capita pressocchè in tutte le famiglie in cui i genitori coltivino una determinata tendenza prevalente o  uno specifico itinerario di formazione: oltre che farne tesoro essi stessi, lo trasmettono anche ai loro figli, speranzosi che essi lo possano percepire, assimilare e recare con sé nella vita futura.

  A rendere ulteriormente l’idea della vicinanza stretta dei coniugi Martolilla con il Santo di Assisi è anche l’episodio doloroso che sconvolse la loro tranquillità nel notare che, dopo sole poche settimane dalla sua nascita, il fanciullino recava un disturbo maligno sull’occhio sinistro che si era già esteso verso tutti gli altri organi ottici come la cornea e ormai stava minacciando di compromettere  per intero la vista di Francesco.

  Presi dalla concitazione e dalla tensione per le conseguenze nefaste che avrebbe comportato questo male improvviso, Giacomo e Vienna fecero ricorso ai medici e ai periti affinchè si trovasse rimedio a questa preoccupante situazione, senza tuttavia pervenire a risultato alcuno. Dedita allora alla preghiera attenta e assidua, Vienna espresse a San Francesco di Assisi il desiderio che Dio, per sua intercessione, concedesse a Francesco la guarigione da questo malessere fisico che aveva reso già inutilizzabile l’uso di un occhio al proprio figlioletto, con la promessa che se questo si fosse realizzato, quando il ragazzo sarebbe cresciuto, ella e il suo consorte lo avrebbero condotto in un convento francescano per vestirvi l’abito votivo per la durata di un anno, quale segno di gratitudine e di ulteriore devozione a Dio e al Santo Assisiate.

  La guarigione di Francesco dall’ascesso avvenne di lì a poco in modo pressocchè miracoloso, giacchè il disturbo si arrestò e il piccolo recuperò la vista dell’occhio sinistro.

  Francesco crebbe nella casa paterna per tutti gli anni della sua infanzia seguendo le guidato nella religione soprattutto dalla madre, che con le parole e con l’esempio, a detta del P. Roberti, contribuì ad fomentare nel fanciullo “il gusto della preghiera, l’amore al raccoglimento e i sentimenti di una soda pietà”[1] incoraggiando così in lui una fedele predisposizione verso il sacro accompagnata dalla sana educazione ai costumi cristiani e ai moniti del Vangelo; l’esempio di vita e la bontà d’animo dei genitori, come pure il loro accompagnamento formativo man mano che il fanciullo cresceva e si imponeva nella statura fisica furono determinati a segnare i lineamenti primari della formazione spirituale e culturale di Francesco essendo sempre costante e premurosa la presenza spirituale di ambedue i coniugi nella sua educazione.

  Non è esagerato affermare pertanto che, essendo la vita e le opere di San Francesco di Assisi l’oggetto specifico delle attenzioni da parte di questi devotissimi coniugi, questi ne abbiano sedimentato i lineamenti nella formazione cristiana del Nostro, peraltro incoraggiati anche dall’assistenza spirituale del francescano minore P. Antonio da Catanzaro, con cui Vienna e Giacomo erano entrati in contatto mentre questi si trovava a svolgere il ruolo di Superiore nel Convento di San Lucido, a pochi chilometri da Paola, entrando in ottime relazioni di amicizia: il P. Antonio sarà l’accompagnatore spirituale stabile della famiglia Martolilla che lo seguirà anche quando questi sposterà la propria sede a San Marco Argentano e proprio con il suo sostegno e il suo appoggio materiale oltre che spirituale, adempiranno la promessa fatta al Santo Assisiate di far vestire l’abito votivo per un anno al piccolo Francesco. Lo stesso padre Antonio fu il sacerdote da cui Francesco ricevette la Prima Comunione e venne istruito anche sui sentimenti di pietà e di retta coscienza.[2]

  Per quanto riguarda l’adempimento di siffatto voto, è opinione comune che i genitori avessero di fatto trascurato, dopo tanti anni dall’avvenuta guarigione dell’occhio sinistro del figlio, di prendere l’iniziativa di condurre Francesco presso un convento di Frati Francescani Minori: forse perchè ormai affezionati all’idea della presenza casalinga del proprio fanciullo, che intanto cresceva nella virtù, esemplarità di vita, generosità, altruismo e sentimenti evangelici dando anche monito agli stessi genitori i due coniugi paolani probabilmente indugiavano non poco nel manifestare fedeltà alla promessa fatta a Dio e al Santo di Assisi ed è tradizione che questa sia stata portata a termine solo in seguito ad una visione celestiale del fanciullo che una notte, mentre riposava placido nella propria stanza, notò che questa si riempì improvvisamente di fulgida luce a giorno; gli apparve in sembianze umane il Poverello di Assisi che lo invitava a convincere i propri genitori a prestare fede alla promessa fatta da Vienna e ad accompagnarlo così quanto prima in uno dei conventi calabresi gestiti dall’Ordine Francescano.

  Francesco non esitò a chiedere con insistenza ai genitori che realizzassero quanto comandato dal Patrono d’Italia, sicchè nel 1428 avveniva che, rotto ogni indugio, Giacomo e Vienna condussero Francesco nel Convento dei Minori di San marco Argentano, un paese a nord di Paola, ben distante dalla casa francescana di San Lucido che sarebbe stata molto più abbordabile trovandosi il paese immediatamente nelle vicinanze della città natale del Nostro. La motivazione di tale scelta è probabilmente legata all’amicizia e alla confidenza scaturita in tanti anni con il P. Antonio da Catanzaro, che come già si è detto presso il Convento di San Lucido era stato molto attento nell’esercizio della guida spirituale di Giacomo, di Vienna e dello stesso Francesco e pertanto adesso, nonostante la distanza geografica, non esitavano a che il ragazzo fosse seguito dallo stesso padre spirituale.[3] Secondo alcuni agiografi tale esperienze avrebbe avuto inizio all’età di 12 anni; secondo altri quando ne aveva 13 e l’Anonimo scrittore della sua Vita con una certa insistenza lo fa entrare all’età di 15 anni.[4]

 Accolto quindi fra le mura conventuali di San Marco Argentano dallo stesso P. Antonio da Catanzaro che celebrò per lui il rito della vestizione dell’abito votivo, affidato alla comunità dei Religiosi dai genitori che fecero ritorno a casa, Francesco iniziò la sua nuova avventura conventuale, realizzando la prima esperienza in assoluto di vita religiosa sotto la quadruplice osservanza della povertà, della castità, dell’umiltà e dell’obbedienza, così come prevedeva il programma di vita francescana per chi vestisse un abito votivo.

  Sempre l’Anonimo descrive la permanenza di Francesco nel convento di San Marco Argentano come quella di un ragazzo esemplare in grado di edificare perfino gli stessi religiosi residenti nella casa già da diverso tempo: nutriva grande amore per la preghiera e per la penitenza sostando per parecchie ore davanti al SS. Sacramento e intrattenendosi in chiesa al termine delle funzioni; lo si vedeva non di rado in atteggiamento estatico e assorto nelle orazioni e nella meditazione; il fascino delle cose celesti lo impegnava anche di notte, di fronte ad un’immagine del Cristo crocifisso o della Madonna. Ciò nondimeno era infaticabile nelle incombenze della casa, alle quali si prestava con impegno e abnegazione svolgendo compiti umili quali la pulizia dei pavimenti e delle stanze, il servizio della cucina, la cura della dispensa, lo spaccare la legna nei boschi, la questua e tante altre opere di servile sottomissione che svolgeva senza mormorazioni.

  Secondo una testimonianza lo si notò una volta in chiesa ad attendere alle orazioni e contemporaneamente anche nella cucina conventuale a sbrigare le mansioni, per un prodigioso effetto di bilocazione e in una certa occasione in cui si era intrattenuto a lungo in preghiera dimentico di preparare i legumi in cucina per i frati, avvenne che questi si cossero prodigiosamente lo stesso.

 La normativa rigorosa e austera che la disciplina conventuale comportava per tutti i frati non gli fu di alcun fastidio, visto che già per sua natura Francesco vi si mostrava propenso, manifestando anzi molta più solerzia e disposizione di quanto si sarebbero aspettati gli stessi Religiosi dimoranti; l’osservanza della Regola e delle disposizioni avveniva in lui con molta disinvoltura e serenità senza che gli uffici conventuali legati agli orari di comunità comportassero per lui aggravio o pesantezza. La disponibilità e la docilità di Francesco suscitarono anche le ammirazioni, oltre che della gente del circondario, anche del Vescovo locale Luigi Imbraco, che sovente giungeva al convento per intrattenersi a conversare con lui.

 Nonostante il proposito suo e dei genitori fosse quello di permanere a San Marco Argentano solo per lo spazio di un anno, i frati del convento non poterono non rivolgergli la proposta di consacrarsi definitivamente al Signore nello specifico della Regola del Poverello, giacchè il giovane Paolano si era mostrato più che all’altezza delle competenze e del carisma che essa comportava, sicchè fu indubbia la sua vocazione allo stato religioso, e per questo non mancò da parte del guardiano e dei  Religiosi della casa la proposta insistente che egli restasse per sempre con loro, anche perché il suo comportamento aveva intanto suscitato molto fascino e affezione presso tutti i confratelli che rifiutavano l’idea di separarsi dal giovanissimo ospite. Vi è chi afferma che Francesco abbia di fatto coltivato il proposito di abbracciare definitivamente la Regola Francescana anche se in un secondo momento, durante il Noviziato, abbia avuto dei ripensamenti che lo portarono ad abbandonare l’Ordine, ma tale ipotesi risulta priva di fondamento.[5]

  Resta fermo tuttavia che i connotati di povertà e di umiltà specifici di San Francesco di Assisi dovettero lasciare una grossa impronta nella formazione umana e cristiana del giovane Francesco di Paola, se è vero che egli si immerse con zelo e disinvoltura nell’osservanza regolare religiosa proposta dal convento di San Marco Argentano traendone vantaggio egli stesso e determinando anche moltissime soddisfazioni per i confratelli che lo videro più che idoneo a menare il loro stesso stile di vita. E’ certo che egli avesse vissuto serenamente e con molta tranquillità quell’anno di prova  e che non avesse incontrato motivi di realizzazione personale nella stessa Regola francescana non disdegnandone affatto il carisma; così pure è proponibile che egli avesse preso in seria considerazione, pur non realizzandola nei fatti, l’idea anche vaga di poter restare per sempre con i frati Minori.

  Francesco dovette tuttavia interpretare che il disegno di Dio nella sua vita era di natura differente e non corrispondeva pienamente al proposito della vita francescana. Voleva andare oltre, scoprire quale fosse il senso reale della sua vocazione; avvertiva probabilmente di essere votato alla vita religiosa, ma non era convinto su quale dimensione questa dovesse impostarsi; aveva compreso certamente che il Signore lo chiamava più strettamente a sé, ma non riusciva a rinvenire lo specifico di questa chiamata né le modalità con cui questa si sarebbe realizzata.

  Animato dalla certezza che il Santo di Assisi non lo preferiva nel numero dei suoi Religiosi, pensava comunque che lo stesso Patrono potesse aiutarlo con la sua potente intercessione presso il Padre a scoprire cosa Questi volesse esattamente da lui. Cosicché, una volta congedasi dai Religiosi del convento di San Marco Argentano, si premurò immediatamente di chiedere ai genitori che lo accompagnassero in un lungo pellegrinaggio con destinazione Assisi. Il viaggio, che sarebbe stato affrontato molto volentieri nonostante l’assenza di garanzie e i pericoli che comportavano gli spostamenti dell’epoca doveva essere motivato innanzitutto dalla comune devozione che vi era in Francesco e nei suoi genitori nei confronti del Santo di Assisi e contemporaneamente anche dalla volontà del giovane Francesco di scoprire con l’ausilio del Poverello il progetto di Dio nella sua vita.

  Alcuni elementi che ci introducono in quella che successivamente sarà la risposta definitiva a tale interrogativo li possiamo riscontrare già in alcuni particolari della vita del piccolo Francesco che non avevamo menzionato in precedenza: scrive il Roberti che, nel periodo della sua permanenza nel convento di San Marco Argentano “Non pago di aver ridotto ad un paio di ore il suo riposo notturno, che, come già nella casa paterna, prendeva nel suo nudo suolo; non soddisfatto dei suoi digiuni quasi giornalieri, volle pure cingersi i lombi con cilizio, e ogni notte flagellare a sangue le sua carni innocenti. La penitenza, che in lui, fin dai più teneri anni, si era manifestata come un istinto di natura, d’allora in poi divenne, la passione predominante del suo essere”[6] sottolineando così che la caratteristica peculiare e distintiva di Francesco era stata sempre quella dell’ascesi e della mortificazione corporale, coefficienti della penitenza quale via di conversione e del primato di Dio sulla materia; tale prerogativa sembrerebbe essere connaturale al giovane Francesco giacchè egli l’aveva messa in atto sin dalla prima fanciullezza anche nella casa paterna senza che dalle privazioni e dalle rinunce scaturisse alcun risvolto compromettente ed esiziale per la salute e per il generale sostentamento del fisico. Si direbbe che addirittura, nell’assumere il latte materno, Francesco se ne nutrisse solo dopo ripetute insistenze della mamma, quanto bastava per trarre l’alimento necessario e che all’età di 7 anni osservasse già l’astinenza dalla carne e dai latticini. Durante il soggiorno a San Marco Argentano, come scrive l’Anonimo “… lasciò da parte ogni abito secolare -mutande, camicie ecc - , eccetto uno di stoffa spregevole, e cominciò a vivere di strettissimo magro, mentre gli altri mangiavano carne e altri cibi. Tale regime di vita egli mantenne scrupolosamente fino a d oggi, anno 1502, in cui ho scritto questo compendio biografico.”[7]

  Attitudini che rendono già l’idea dell’ascetismo monastico che andrà a caratterizzare in futuro la vita del Paolano penitente e che emergono timidamente già nell’infanzia, associate anche alla continua orazione e alla familiarità con Dio, osservata questa nel sano isolamento dal mondo.

  Il progetto di Dio nella vita del giovane Francesco si sarebbe rivelato quindi inerente alla vita religiosa anche di stampo cenobitico, tuttavia non limitativa alle comuni aspettative della vita consacrata già esistenti, ma con un ulteriore slancio di mistica attitudine per la materia spirituale che non era propria di altri Istituti Religiosi.

  Infatti Francesco nell’affrontare il lungo viaggio ad Assisi riscontrerà egli stesso che questi germi di vocazione verranno inesorabilmente alla luce in conseguenza di un lungo itinerario di meditazione che sarà stato favorito dallo stesso viaggio in Umbria che conoscerà delle tappe significative che gli daranno occasione di impostare la sua vita secondo il solco di un’impronta più profonda.

  Partì per Assisi accompagnato da Giacomo e da Vienna nel 1430, secondo il parere di alcuni vestendo ancora l’abito votivo francescano, ipotesi questa tuttavia smentita da altri. [8] Essendo questa una tappa del cammino che la famigliola doveva percorrere, prima di raggiungere la cittadina umbra, si fermò a Roma, dove sarebbe rimasto molto affascinato di sostare in preghiera sulla tomba degli apostoli e di riconsiderare la sede del successore di Pietro se non fosse rimasto sconcertato dalla constatazione che i ministri del Signore, nella persona degli ecclesiastici e dei cardinali, erano vittime di un sistema di lussuria e di corruzione che i imperversava oltre che nella Chiesa anche nell’intera società: lo sfarzo che si riscontrava nell’abbigliamento e nei costumi degli uomini di chiesa era agli occhi del giovincello molto paradossale e ingiustificabile, dovendo la Chiesa dispensatrice della grazia di Dio anche e soprattutto attraverso la testimonianza di vita dei suoi pastori e Francesco non mancò di manifestare il suo disappunto quando lui e i genitori si imbatterono in una carrozza elegantemente ornata sulla quale viaggiava un cardinale accompagnato da buona scorta di servitù. Il ragazzino, superando ogni indugio, rivolgendosi all’alto prelato, gli osservò che tutto quella ricercatezza e quegli agi non corrispondevano per niente alla persona e allo stile di vita del Salvatore. Il cardinale fece arrestare il cocchio e in tono paterno e comprensivo rispose al fanciullo che la Chiesa non poteva omettere di adeguarsi alla costumanza vigente dei potenti e dei facoltosi, pena la possibilità di non essere da questi ascoltata o considerata.

  La risposta del cardinale dovette insinuare nell’animo di Francesco un indubbio sentimento di riprovazione e di riluttanza nei confronti di una gerarchia ecclesiastica che trovava perfino le legittimazioni della sua voluttà e vanità nella necessità di adeguamento ai costumi dei potenti, quando Cristo nel suo Vangelo impone un orientamento del tutto opposto che prevede anche la persecuzione e la denigrazione pur di andare controcorrente e certamente tale contestazione interiore sarà il costitutivo perenne della vita e della scelta di spiritualità del Paolano.

  Davanti alle ossa del Santo di Assisi, Francesco di Paola sostò a lungo in preghiera restando affascinato del carattere di sacralità e di raccoglimento che offrivano tutti i luoghi francescani, ivi compresa la Porziuncola e la chiesa di San Damiano. Nella stessa chiesa che ospita tuttora i resti mortali dell’Assisiate si vuole che il Nostro avesse emesso  anche un voto di verginità.[9]

  Sulla via del ritorno il giovane paolano ebbe modo di visitare altri luoghi che segneranno definitivamente la sua vita: non si sa con certezza se egli abbia raggiunto il Santuario della Madonna di Loreto, ma è certo che si sia recato a Spoleto per poi raggiungere il monastero benedettino di Monteluco, dove rimase affascinato dello stile di vita eremitico dei monaci e della loro dedizione alla penitenza e all’umiltà. Altra tappa importante nel tragitto di ritorno del nostro Francesco fu Montecassino, famosa abbazia benedettina a pochi chilometri dalla cittadina di Cassino, che si può definire il quartier generale della rinascita monastica d’Occidente con San Benedetto da Norcia, che tuttavia in quel periodo particolare della sua storia stava attraversando una certa crisi quanto all’esemplarità di vita dei monaci e al comune andazzo della vita monastica. In ambedue i monasteri il giovane ebbe modo di confidarsi con i monaci ivi residenti sul probabile orientamento della sua scelta vocazionale facendo sempre più chiarezza in se stesso intorno allo specifico di vita di speciale consacrazione che avrebbe dovuto abbracciare.

  Fu infatti il ritorno a casa dopo il pellegrinaggio a determinare la decisione ponderata e attenta di Francesco che avendo escluso categoricamente che Dio lo chiamasse alla sua sequela in uno dei conventi religiosi già esistenti, optò per la scelta eremitica.

  Sia la delusione della lussuria e dello sfarzo riscontrato a Roma nella classe clericale, sia le visite ai due monasteri suddetti come pure la preghiera al Santo di Assisi avevano inculcato nel suo spirito il desiderio di coltivare quanto era già in germe nella sua persona di giovane innamorato di Dio, accrescendo così il rigore delle mortificazioni corporali e delle privazioni con cui soleva coltivare il suo amore al Signore sin dalla più tenera età. Gli altri Istituti Religiosi quali l’Ordine Francescano lo avrebbero comunque edificato e anche egli vi avrebbe apportato un indiscusso contributo di perfezione e di santità, tuttavia non gli avrebbero consentito di mettere a frutto i carismi che lo Spirito Santo aveva già infuso in lui, i quali richiedevano uno spazio maggiore di solitudine e di lontananza dal mondo per coltivare la penitenza attraverso le pratiche ascetiche proprie del monachesimo.

  L’esperienza del deserto ebbe inizio per il Paolano in un podere di proprietà dei genitori a poca distanza dalla cittadina, che con molta probabilità era coltivato a vigneti.[10] Francesco intraprese il suo eremitaggio in una tenda di frasche collocata nel campo, dove iniziò a menare vita solitaria mentre i genitori periodicamente lo assistevano nelle necessità. Quell’ambiente non si rivelò tuttavia favorevole per lo scopo che il giovane Francesco si era prefissato, poiché ubicato pur sempre in un luogo di passaggio per molta gente e pertanto ben lungi dalla lontananza e dalla solitudine che sarebbe stata necessaria per dare l’esclusiva alla vita spirituale, sicchè risolse di scegliere un altro speco in una zona più raccolta e ritirata che riuscì a trovare in una piccola apertura sulla roccia in una collina nei pressi dell’attuale Santuario di Paola, che egli stesso provvide a completare negli scavi con i mezzi procuratigli dai genitori. Qui, ad eccezione di qualche rarissimo passante di passaggio, l’unica compagnia di cui poteva disporre Francesco era quella degli animali selvatici che vagavano nei dintorni, come pure le asperità della natura incontaminata ma ostile che offriva un panorama del tutto selvatico nella flora.  Per alcuni anni, precisamente per tutto il periodo dell’ adolescenza, Francesco visse in quella dimora tutt’altro che ospitale coltivando intensamente la solitudine e l’isolamento per una dedizione sempre più costante e motivata alla preghiera e alla contemplazione del divino, favorita dalla rigidità della natura poco generosa che lo circondava e dalla lontananza dalle attrazioni del secolo e dalle proposte della mondanità. Gli agiografi scrivono che per tutto il periodo della grotta furono parecchie le mortificazioni corporali e i digiuni a cui Francesco si sottomise per dominare le pulsioni della carne e avere la meglio sulle passioni e sugli istinti; si cibava di quanto la natura del mondo antistante gli offriva e cioè di radici, erbe, bacche e di altri alimenti selvatici che il bosco potesse offrire adagiandosi sulla rudezza dei massi e delle pietre di cui la grotta era composta. Il Roberti ci delucida anche sulle lotte che Francesco in questa speciale situazione dovette sostenere contro il demonio che secondo delle informazioni in suo possesso lo ossessionò con ripetute visioni di bellezza femminile tendenti a distoglierlo dal suo proposito di vita solitaria; più di una volta il principe delle tenebre lo avrebbe tartassato per mezzo di urla strepitose[11] e altre provocazioni che il giovane fraticello affrontava e superava mortificando le membra nelle gelide acque del fiume Isca che tuttora scorre nei pressi del medesimo speco.

  Si racconta per leggenda che dal contesto delle lotte fra Francesco e il principe delle tenebre sia scaturita la costruzione del “ponte del diavolo”, che tuttora, attraversato e contemplato da centinaia di pellegrini, mette in comunicazione le due sponde del fiume Isca ed è parte integrante della “zona dei miracoli” dell’attuale Santuario di Paola: dovendosi costruire successivamente un ponte che favorisse il passaggio da una riva all’altra del fiume, si vuole che il diavolo, sempre insidioso nei confronti del nostro Santo, gli fosse apparso in una certa occasione rivolgendogli una proposta molto invitante e accattivante, secondo la quale il ponte sarebbe stato costruito prodigiosamente dallo stesso demonio a condizione che Francesco concedesse agli inferi la prima anima che lo avrebbe attraversato. Francesco accettò la proposta ma un a volta che il diavolo ebbe edificato il suddetto ponte, ricorse all’astuzia di far passare attraverso di esso un cane. Nonostante le sue proteste il diavolo dovette arrendersi ad accettare l’anima di quell’animale. Quella della lotta contro le seduzioni del diavolo è sempre stata una caratteristica immancabile presso tutti gli eremiti e anche nella spiritualità antica dei Padri del deserto era concezione che il diavolo si aggirasse proprio nei luoghi solitari, pronto a tentare di distogliere coloro che avessero il fermo proposito della vita ritirata in vista di Dio, così prescindendo dalla veridicità o meno di questo episodio narrato è comunque proponibile che Francesco sia stato oggetto di continue provocazioni demoniache contro le quali lottare strenuamente.

  La contemplazione nella grotta non fu tuttavia l’ultima prospettiva di Francesco, giacchè dopo non molti anni riscontrò come un po’ alla volta il suo deserto diventasse anche oggetto di attenzione da parte di non poca gente di passaggio che a lui si avvicinava per trovare una parola di conforto e di consiglio, alle quale Francesco non negava esortazioni e moniti al ravvedimento, alla conversione a Dio e alla preghiera. In modo tale che alla solitudine in vista di Dio si associava in Francesco anche la dimensione dell’apostolato, secondo le tappe di un itinerario che come vedremo in seguito era cosa comune a tutti gli anacoreti e gli eremiti delle origini e dei secoli poco anteriori a lui.

  Fu nel 1435 che alcuni uomini, affascinati dallo stile di vita serena anche se sacrificata che viveva il nostro Paolano, decisero di condividere con lui la stessa esperienza di vita eremitica. Il che avvenne dopo che Francesco, abbandonato l’antro prediletto, si era costruito una piccola celletta nella quale accogliere il sempre più crescente numero di persone desiderose di incontrarlo e di conferire con lui. Fra tanta gente si distinsero infatti tre giovani che rivelarono come reale e ponderato il proposito di condurre la stessa vita che Francesco aveva condotto fino ad allora, entrando cioè anche loro, assieme a lui e sul suo esempio, nell’ordine della contemplazione eremitica. I nomi che gli agiografi attribuiscono ai nuovi arrivati sono: Frà Fiorentino, il cui cognome è rimasto ignoto, Frà Angelo Alipatti da Saracena, Frà Nicola da San Lucido; tutti di vita virtuosa e fermi nei propositi di perfezione che accanto al Paolano si stavano prefiggendo, e che lo stesso provvide a vestire il suo medesimo abito e insegnando loro a vivere la vita quaresimale. Con il loro arrivo, si provvide alla costruzione di tre cellette e di una cappella nelle immediate vicinanze che diede vita al primo romitorio di quello che diventerà in futuro l’Ordine dei Minimi, che si assimilavano in tutto nell’abito e nello stile di vita del Fondatore, vestendo in abito rozzo e grezzo, nutrendosi di cibi precari e leggeri e camminando scalzi, si dedicavano alla preghiera e al lavoro oltre che al ritiro nella propria cella. Si discute tuttora se Francesco avesse ottenuto, già nel 1435, l’autorizzazione dell’autorità ecclesiastica per la fondazione della sua nuova famiglia. Si direbbe che sulle prime il problema giuridico e normativo non si pose se non sommariamente, poiché l’andamento della vita eremitica era del tutto spontaneo e l’organizzazione, grazie alla buona volontà e alle disposizioni degli stessi frati, era molto semplice e immediata; tuttavia è da ritenersi che una prima licenza, anche solo orale sia stata data al Paolano da parte della Curia locale nella persona dell’allora arcivescovo di Cosenza Mons. Bernardino Caracciolo. L’approvazione ufficiale del movimento in diocesi si ebbe nel 1471 con la bolla Decet nos ad opera di Mons. Pirro Caracciolo, che fu arcivescovo di Cosenza a partire dal 1453 e che avrebbe conosciuto personalmente Francesco già nei primi anni del suo ministero, lodandone le virtù ed elogiandone il carisma, concedendogli anche il riconoscimento di personalità ecclesiastica quale eremita. Anche in virtù di questi elementi, c’è chi afferma che la data ufficiale della fondazione della comunità eremitica sia avvenuta non prima del 1452 e non già nel 1435. La prima denominazione ufficiale che il movimento ebbe da parte di Caracciolo fu quella di Frati eremiti di San Franceco di Assisi, dal nome della chiesa del romitorio che il Paolano aveva appunto dedicato all’Asssisiate.

  A contribuire notevolmente al disbrigo delle pratiche giuridiche di approvazione della congregazione di Paola fu il dottissimo e zelantissimo P. Baldassare De Guttrosis da Spigno[12], che, oltre a richiamare la già ben disinvolta attenzione di Pirro Caracciolo sul romitorio paolano, ebbe l’intenzione di presentare il progetto di istituzione del movimento direttamente a Roma, soprattutto perché intenzionato a presentare la nuova famiglia paolana come elemento essenziale nell’opera di riforma e di restaurazione morale della Chiesa. La richiesta al pontefice Sisto IV si avvalse di altre due suppliche in aggiunta alla Decet nos e ottenne che il papa intervenisse con una verifica intornoa ai contenuti della suddetta Bokla affidata al Vescovo di San Marco Argentano.[13] Lo stesso Sisto IV nel 1474 approverà la nuova congregazione eremitica paolana una volta confermati i contenuti della Decet nos. Verranno riconosciuti alla congregazione di Paola i privilegi concessi agli Ordini religiosi già esistenti. Accanto all’approvazione ecclesiastica Francesco e il suo movimento godettero anche dell’approvazione da parte della corte regale di Napoli che sostenne il movimento autorizzando la costruzione dei conventi il tutti i territori del Regno; cosa che di fatto si verificò molto presto, visto che progressivamente la congregazione andò conquistando sempre più notorietà grazie a nuove fondazioni operate anche su delega del Santo.

   Del 1452 è la costruzione di una seconda chiesa accanto ad un altro luogo in cui si edificarono nuovi spazi in cui accogliere i nuovi membri della famiglia religiosa che intanto si andavano aggiungendo al primitivo cenobio; si vuole che il perimetro di questa nuova costruzione sia stato suggerito in sogno al Paolano da parte di San Francesco di Assisi che avrebbe caldamente invitato il frate di Paola a demolire le prime fondamenta del tempio che aveva già costruite per realizzare l’intera struttura secondo un nuovo progetto da lui suggerito.[14] La nuova struttura ecclesiale si realizzò grazie al concorso di molta gente munifica e dedicata che contribuì con cospicue elargizioni, essendo ormai l’eremita paolano e i suoi primi frati oggetto di amore e di stima da parte del popolo che non mancava di manifestare in tutti i modi il proprio affetto e non mancarono neppure le donazioni da parte di parecchi personaggi facoltosi.

  Siffatta benevolenza da parte della gente viene attestata come meritoria soprattutto per le virtù, la bontà, l’umiltà e la comune docilità di spirito che caratterizzavano questi religiosi al seguito di Francesco, tutte prerogative umane che vengono testimoniate con un certo entusiasmo a più riprese oltre che dall’Anonimo anche dai testi del Processo Casentino, anche in appendice ai racconti di avvenuti prodigi o interventi miracolosi da parte del Santo; leggendo infatti non poche testimonianze del suddetto processo, esse concludono la loro esposizione con la descrizione morale di Francesco come uomo irreprensibile di santa vita, di umiltà e di penitenza, dedito alla costruzione dei conventi e al lavoro assiduo.[15]

 

1. 1. 1 Una parentesi sui miracoli

 

  A proposito degli eventi prodigiosi di cui il Paolano fu protagonista durante la costruzione del convento di Paola come pere a paterno Calabro e dovunque egli abbia vissuto occorre innanzitutto rilevare che essi si contano a dismisura forse come mai nella vita di nessun altro Santo, tanto che la tradizione si avvale di una famosa espressione secondo cui  A mio giudizio sembrerebbe che diversi fatti miracolosi fra quelli riportati siano piuttosto la risultante di elaborazioni gratuite da parte di chi ha valuto esaltare con ogni mezzo l’indiscussa grandezza ”Era un miracolo quando non faceva miracoli.” Tutti questi eventi, che risultano sempre essere la motivazione principale per cui un uomo è seguito dal popolo che fa ressa su di lui, hanno interessato la maggior parte della vita di Francesco di Paola ed è quasi impossibile stendere una sua biografia senza riferirsi agli eventi prodigiosi verificatisi in lui. Ad illustrarci il grosso dei miracoli di questo Santo oltre che l’Anonimo è soprattutto la molteplicità delle testimonianze del Processo casentino nelle quali si riscontrano interventi di varia natura da parte del Paolano che si erge quasi a risolutore di moltissimi problemi di natura medica, esorcistica, taumaturgica. A mio avviso, l’attenzione verso i soli fatti prodigiosi di un uomo di Dio è insufficiente e anzi potrebbe essere lesiva ad ogni tentativo di volerne esaltare l’attualità della figura, del personaggio carismatico e devoto, nonché il suo contributo al riassetto della società. Parlare solo di miracoli non aiuta a capire il valore di un Santo.E soprattutto intrattenersi su quegli eventi di secondaria importanza che sono innecessatri a mostrare la grandezza di Dio in un santo potrebbe apportare il rischio che questi possa essere interpretato alla stregua di una figura mitologica che possiede il miracolo come asso nella manica su ogni situazione. Per questo motivo, ci si premurerà di tratteggiare, fra tutti i miracoli, quelli che maggiormente ci aiutano a vedere in Francesco l’uomo di Dio e in Dio colui a cui tutto è possibile per il beneficio dell’uomo e che richiama l’uomo alla comunione con sé. Tali sono ad esempio i miracoli che incontreremo successivamente dal convento di Paterno in poi, che vengono presi in seria considerazione e che non mancheremo di visionare anche in rapporto alla loro intrinseca edificazione sull’amore che Dio ha nei confronti di tutti, soprattutto di quanti si affidano a lui e anche durante la costruzione del convento di Paola si narrano eventi prodigiosi molto significativi. Il santo calabrese era tuttavia sempre solito insistere sulla provenienza puramente divina di siffatti eventi prodigiosi dei quali non mostrava alcun motivo di vantarsi o di manifestare altezzosità e vanagloria sottolineando altresì che qualsiasi miracolo non si realizza se non in conseguenza della nostra adesione e della fede sincera in Dio.

   Si dice parecchie volte che Francesco mentre lavora nella costruzione del convento con un solo gesto di una trave ne fa due; accende le candele con il solo schiocco delle dita, tocca con la mano il fondo della padella mentre in essa brucia dell’olio bollente senza ustionarsi, immerge le mani nell’acqua bollente;[16] cammina a piedi nudi fra rovi, spine, pietre insidiose senza provare alcun fastidio e non è raro il fenomeno della levitazione delle pietre durante i lavori di edificazione della struttura, poiché più di una volta rende pesanti come un fuscello grossi macigni che vengono così trasportati senza difficoltà. Ma uno degli interventi prodigiosi che meritano maggiore attenzione può essere riscontrato  nelle “pietre del miracolo”, che tuttora si osservano nello strapiombo a sinistra guardando dal piazzale del Santuario: un giorno si verificò una frana fra le montagne attigue alla zona dell’edificio che provocò la pericolosa caduta di due possenti massi che, staccatisi da una delle montagne, stavano per precipitare violentemente sulla struttura del convento. Francesco se ne avvide tempestivamente e gridò in loro direzione: “Fermatevi, per carità!”; al che i due consistenti macigni restarono sospesi in bilico contro ogni legge di gravità. Se avessero impattato sul convento, avrebbero provocato vittime e danni incalcolabili.

  Durante la costruzione del convento, ci si era provvisti di una fornace per l’approntamento della calce. Essa un giorno prese inspiegabilmente fuoco e le fiamme, sempre più minacciose e imperanti, avevano conquistato tutta la stanza, e stavano divorando le pareti e le travi della stessa, al punto che era ormai in procinto di cadere. Allarmati, i frati addetti alla costruzione chiamarono il loro maestro, il quale li invitò a recarsi a refettorio per la consumazione del pranzo; mentre si allontanavano, videro Francesco entrare nella fornace in mezzo alle fiamme. Al loro ritorno lo ritrovarono incolume, sano e salvo, di fronte alla fornace che era tornata come nuova, senza alcun segno di abrasione.[17]

  Sempre durante la costruzione del convento, essendo scomodo e fastidioso ricorrere al fiume Isca per provviggionarsi di acqua, si necessitava che vi fosse una fontana nei paraggi della struttura in costruzione e la cosa aveva suscitato anche la mormorazione di non pochi frati. Francesco colpì con un bastone una roccia, che si aprì immediatamente facendo sgorgare una sorgente viva di acqua che ancora oggi scorre emettendo lo stesso quantitativo costante di acqua in ogni stagione, anche in tempi di siccità. Viene denominata “fonte della cucchiarella” poiché è invalso l’uso di bervi con l’utilizzo dei mestoli e dei cucchiai. In un’altra circostanza, essendosi recato con altri dieci operai a Guardia Piemontese per trasportarvi alcune travi, ve ne era una dalle dimensioni sproporzionate, difficile da trasportare. I dieci trasportatori non riuscivano a sollevarla, ma Francesco ne alleggerì notevolmente il peso al punto che a sollevarla fu lui stesso, senza l’aiuto di nessuno.[18]

 Fra gli eventi miracolosi narrati non mancano le guarigioni e gli esorcismi che i testi dei processi Calabro e Cosentino riportano in numero elevatissimo. Alcuni di essi sono stati considerati importanti ai fini della canonizzazione. Sia a Paola come pure poi a Paterno Calabro, Francesco operava tante e tali guarigioni da costituire un peso e un fastidio per i medici del posto, che si vedevano spiazzati di fronte ai successi che non otteneva la scienza ma di cui era capace la fede.     Del resto, succedeva non di rado che Francesco esortasse gli infortunati a non recarsi dal medico ma ad avere fede nel Signore, poiché sarebbero stati guariti. Il che di fatto puntualmente si verificava.[19]

  Un signore che si era fratturato un ginocchio provava un dolore assillante e insopportabile; Francesco intervenne ponendo una mano sulla parte offesa e il male sparì immediatamente come se non vi fosse mai stato.[20] Un muto riacquistò la parola durante una sosta in chiesa in compagnia dell’umile eremita[21], una donna sterile partorì prodigiosamente[22].

  L’Anonimo racconta che i demoni che entravano in possesso delle persone ossesse provavano fastidio per quel “barbuto sozzo ma aggiustato, mangiatore di radici” poiché  era per loro di ostacolo con la sua vita umile e santa. L’espressione suddetta che descrive spregevolmente  Francesco viene messa in bocca a una ragazza posseduta da una legione di diavoli, che, interrogati dall’eremita, dicono di essere una legione e di abitare nel bosco dove vive uno stormo di corvi.  La loro intenzione sarebbe quella di distruggere l’Italia, ma ne sono impediti dalla santità e dall’austerità di vita dello stesso Francesco; non appena però questi si fosse allontanato avrebbero persistito nel loro intento. Francesco impone ai diavoli di uscire dal corpo di quella povera fanciulla, ma essi avanzano pretesti per potervi restare e continuare a soggiogarla. Sicchè il frate afferra la ragazza violentemente per i capelli intimando ai demoni di uscire da quel corpo e questi finalmente obbediscono, lasciando libera ed esanime quella giovane poveretta, che riacquista un po’ alla volta forza e vigore.[23]

   I miracoli sono sempre stati tuttavia solo una delle caratteristiche che meriteranno a Francesco il dono della canonizzazione e intanto l’essere ammirato e stimato dalla gente. Più che gli eventi prodigiosi, di questo buon uomo vanno apprezzate le virtù e la capacità di interagire con la gente con molta umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportando ogni cosa con amore e furono appunto queste la caratteristiche portanti della sua vita spirituale che egli trasse dalla grotta, e che continuò a coltivare in tutto il percorso della sua vita.

   Nelle tre Suppliche presentate a Roma da Pirro Caracciolo successive al 1471 per la conferma della Decet Nos si esaltano da parte di Mons. Pirro Caracciolo le virtù e le qualità della famiglia eremitica come sommamente apprezzabili e di grande edificazione per tutto il popolo della zona. Nella Supplica Dudum Devota  lo stile di vita dei membri della nuova famiglia paolana sono presentati con le stesse caratteristiche che la Decet Nos attribuiva al loro Maestro e Fondatore: “non mangiano carni, uova, né alcuna specie di latticini, ma usano sempre cibi quaresimali; camminano con sandali aperti e con una sola tunica e, all’occorrenza, anche una sottoveste; dormono così vestiti sopra la paglia; osservano digiuni continui fino a quando si può resistere fisicamente; si dedicano ad ore stabilite alla preghiera e ad altre opere pie; vivono di elemosine, non hanno sulla in proprio e non toccano denaro; lavorano alla costruzione del convento; le elemosine non solo sono procurate magno sudore, con la questua, ma anche distribuite ad altri… La vita di Francesco e dei suoi eremiti ha giovato moltissimo e tuttora giova alla salvezza spirituale di molti, e tante opre buone sono state compiute per mezzo suo, opere di rappacificazione e di pace… e molti mali sono stati evitati e si evitano tuttora e un grande esempio di vita santa viene offerto a molti.”[24]

   Come avremo modo di visionare in seguito, la vita di Francesco quanto ai digiuni, astinenze e vessazioni corporali sarà sempre molto più rigida e sacrificata rispetto a quella dei confratelli: questi potranno cibarsi di qualsiasi alimento di magro, mentre Francesco sceglierà di non mangiare pesce  e di osservare incomparabili veglie di preghiera e digiuni assillanti che renderanno impossibile che alcuno dei suoi seguaci lo possa imitare alla perfezione. Con l’incremento dei religiosi disposti a seguire lo stesso stile di vita del penitente paolano, occorre organizzarsi diversamente ricorrendo a spazi più ampi dove poter vivere adeguatamente la propria religione e si necessita anche di una disciplina normativa che organizzando la comunità eremitica, realizzi anche un preciso schema di convivenza; cosicché l’Anonimo ci informa che la prima comunità di frati durante la costruzione del convento di Paola ricevette dal suo fondatore una Regola “ e un modo di vivere in povertà, castità, obbedienza, osservando per tutto il tempo della loro vita una vita quaresimale.”[25]   La vita quaresimale sarà sempre la caratteristica portante della spiritualità e delle normative della congregazione e sarà anche la condizione essenziale perché si possa entrare nella famiglia di San Francesco di Paola accettando le relative rinunce e i sacrifici che essa comporterà in tutte le epoche. Essa riguarda un particolare stile di quaresima perpetua che comporterà una disciplina fisica e soprattutto un rinnovamento spirituale della propria persona in vista del ritorno a Dio.

  E’ da osservarsi che la fecondità apostolica si ravvisa molto spesso proprio in quei soggetti raccolti e solitari che inizialmente non coltivano il proposito di comunicare con il mondo esterno ma che successivamente si ritrovano ad interagire con la gente in virtù dell’ideale che essi coltivano con fede; tale è il caso di Francesco di Paola, paragonabile a tanti altri eremiti, la cui dimensione di contatto con il mondo scaturì nient’altro che dalla sua impostazione di vita e dal carisma che egli si ritrovò a coltivare e questo ci impone di rivedere anche i criteri stessa della nostra pastorale che riteniamo efficiente solo quando si componga di attività e iniziative che molto spesso rischiano di mostrare la loro vacuità di contenuto. E’ innegabile invece che la qualità del servizio ministeriale dipenda dalla previa dedizione di se stessi al mistero di Dio e alla familiarità personale con il sacro, che è destinata a trasparire successivamente nelle nostre azioni: nella misura in cui ci si affascina  di quanto è oggetto della nostra contemplazione della nostra ammirazione devota, ci si dedica con rinnovato zelo nella preghiera e ci si immedesima nella grandezza dell’amore di Dio che per primo nella sua misericordia tende a raggiungere l’uomo per richiamarlo alla comunione con sé, si sarà qualitativamente capaci di rendere anche altri entusiasti della nostra fede e con la nostra convinzione di Dio si sarà in grado altresì di rendere anche altri entusiasti della nostra stessa esperienza realizzando così un valido ministero già nella nostra stessa quotidianità.

 

1.2 Insegnamenti del Santo e famose locuzioni

 

    Occorre rilevare che San Francesco di Paola merita molta stima e devozione soprattutto per la sua persona completa da uomo ideale che sa affinare in se stesso bon senso, razionalità, rettitudine morale con le caratteristiche della fede e della devozione che conducono a costruire la persona secondo giusto equilibrio fra le qualità umane e l’affidamento al divino.

   Ragione e fede sembrano infatti collimare e procedere di pari passo nella vita di quest’uomo senza che l’una prevalga sull’altra secondo un equilibrio che si richiede a tutti gli uomini di fede.

  Egli sa valutare ogni scelta con molta ponderazione, soppesare i pro e i contro di ogni decisione personale o collettiva e raggiungere la soluzione di tutti i problemi con molta serenità e risolutezza guidato dal raziocinio oltre che dalla fede in Dio.

  In effetti vi sono dei momenti della sua vita in cui egli agisce con quella che potrebbe sembrare imprudenza e istintività o mancata riflessione sulle cose e sulle situazioni, come ad esempio quando affronta determinati viaggi privo di denaro e di mezzi di sostentamento, ma in quei causi vi è sempre la cognizione di causa preceduta da opportuna ponderazione che occorre anche affidarsi alla grazia di Dio oltre che prendere iniziative personali e che a risolvere i problemi può intervenire la Provvidenza, che in tutti i casi sussiste anche nella misura dell’inimmaginabile; ferma restando la nostra buona volontà e il nostro impegno, in Essa bisogna pur credere e su di Essa occorre anche contare, accettando che davvero nulla è impossibile per Dio e tralasciando pertanto il nostro connaturale razionalismo esasperato. Prova ne sia il fatto che Francesco potrebbe eseguire determinati miracoli anche senza chiamare in causa altre persone; oppure realizzarli in situazioni molto più comode rispetto a quelle in cui molte volte viene a trovarsi nel rendersi strumento della divina onnipotenza. Come ad esempio, quando si troverà a viaggiare alla volta della Sicilia, affamato, potrebbe far comparire il pane nella sua stessa bisaccia senza la necessità di doverlo chiedere in elemosina ad alcuni viandanti; che non ne hanno, ma ai quali lo fa trovare prodigiosamente. Potrebbe anche provvedere lui stesso a collocare i ferri agli zoccoli del suo asinello che (come vedremo) lo accompagnerà sulla strada verso Napoli, senza la necessità di dover perdere tempo prezioso con un maniscalco che esige di essere pagato. In quella occasione, l’asinello restituisce immediatamente i ferri nonostante siano saldati alla perfezione Ancora, potrebbe realizzare qualche prodigio anche nel silenzio facendo in modo che nessuno lo osservi, eppure parecchi miracoli vengono eseguiti pubblicamente. Se invece egli preferisce assumere determinati atteggiamenti anche nell’eseguire i miracoli è perché nonostante la sua intelligenza e la prudenza nel gestire le cose, gli viene spontaneo confidare nella grazia di Dio e nella sua continua assistenza onnipotente, lasciando a Lui il diritto di intervenire secondo la sua prerogativa di onnipotenza e inoltre intende dimostrare anche a tutti i suoi interlocutori che Dio davvero può fare tutto, anche senza il concorso o la volontà dell’uomo. Meglio ancora, egli vuole dimostrare che l’amore di Dio può veramente tutto e valica di gran lunga le nostre presunzioni e la smania di grandezza da parte nostra. Con il suo stesso agire quindi Francesco si mostra anche apostolo ed educatore, apportatore del Vangelo nella piccolezza in cui si trova a vivere e ad operare e apportatore della novità di salvezza per cui si sente chiamato ad essere apostolo oltre che discepolo.

  Per questo Francesco si rende anche educatore, formatore, inculcatore di valori e propugnatore di virtù.

    A Paola erano ormai interminabili le folle che accorrevano da diverse parti del circondario per incontrare il buonissimo eremita che aveva sempre una parola di conforto per tutti e si mostrava generoso di attenzioni, consigli, esortazioni spirituali. Gli sproni più ricorrenti della sua predicazione e del suo ministero si incentravano soprattutto sulla  conversione di cuore a Dio, sulla fede e sul ravvedimento e la perfezione di vita.

  Francesco esortava ripetutamente a cercare sempre Dio e onorarlo nelle intenzioni e nelle azioni; Dio era al centro della sua missione di catechesi e l’imitazione del Signore Gesù Cristo era l’argomento principale delle sue esortazioni a cambiare vita e argomento valido su come impostare una nuova condotta. Non di rado offriva a tutti una garanzia nella vita secondo Dio, che si riassume in una frase semplice che ha conquistato l’attenzione di tutti i lettori della vita di san Francesco di Paola, anche i meno attenti: “A chi ama Dio tutto è possibile” con la quale non soltanto riaffermava il valore dell’onnipotenza divina ma esprima che in essa ci si poteva riconoscere tutti e di essa si poteva anche beneficiare per mezzo della fede sincera che scuote le montagne (Mc 11, 23). Proprio nel pronunciare questa affermazione egli prendeva i tizzoni di fuoco ardenti fra le mani senza ustionarsi e compiva altri miracoli. Non realizzava però interventi miracolosi né guarigioni in quanti non mostravano disposizione di cuore verso il Signore, poiché la stessa carenza di fede comportava che non fossero esauditi, e soleva affermare che Chi non ha fede, non può avere neppure grazia   Invitava alla penitenza e alla conversione a Dio soprattutto nello specifico del riconoscimento dei propri peccati, per esempio insistendo che si ricorresse al sacramento della riconciliazione, luogo di incontro con Cristo che impartisce il suo perdono e nel quale noi abbiamo l’opportunità di “pulire la nostra casa, cioè la coscienza” per essere buoni cristiani.  La coscienza veniva identificata (e di fatto è sempre stata ) dal Santo “la casa” dell’uomo individuale, ossia il luogo delle private intenzioni e dei personali convincimenti e appunto come una casa materiale va mantenuta in ordine, così anche la nostra casa intima non può non avere le nostra attenzioni di pulizia e di decoro nella rimozione delle nostre colpe. Naturalmente è necessario che alla pulizia della nostra coscienza dai peccati corrisponda anche la volontà di non commettere altri mali in seguito, cosicché Francesco esortava anche alla pratica del bene: “Fate sempre il bene.” Esortava pertanto alla carità e alle opere di bene, che lui stesso praticava senza riserve e senza imporsi limiti anche elargendo a scopi di bontà e di amore, parecchie delle elemosine che il convento riceveva dalle donazioni di terzi poiché era legittimo che si dovesse andare incontro ai bisogni del prossimo meno abbiente.    E  soprattutto imponeva che nel bene verso il prossimo si perseverasse poiché “invano si comincia il bene se lo si abbandona prima della morte e la corona di gloria viene data ai soli perseveranti.” La familiarità con Cristo e l’unione con lui era argomento decisivo dalla sua predicazione e del suo insegnamento al punto che lo anteponeva a tante sue altre esortazioni e lezioni di vita: ”Se ci siamo incontrati e mi hai dimenticato, non hai perso nulla; ma se incontri Gesù Cristo e lo dimentichi, hai perso tutto. “   

  Invitando alla pace e alla riconciliazione, soprattutto nel contesto della vita religiosa presso i suoi frati, invitava a dimenticare il torto ricevuto e perdonare il prossimo che ci ha offeso, definendo il ricordo del male ricevuto come una sorta di “freccia arrugginita” e chi non fosse stato capace di perdono “invano sta nel monastero, benché non ne venga espulso”. Ripeteremo anche in altre occasioni che egli non soleva mai tagliare i panni addosso”, ossia insinuare malelingue e pettegolezzi parlando male del prossimo e usando pregiudizi, e riprovava quanti si dessero alla maldicenza e alla cattiveria verbale.

  Poiché la lingua è uno strumento nobile e utilissimo che non di rado può condurre tuttavia al pericolo di imprudenza e di indiscrezione, Francesco coltivava con tutti il dominio nel parlare esortando a che si stesse attenti all’utilizzo della lingua affinché non si fosse lesivi con parole spropositate e offensive. Nella IV Regola approvata poi da Giulio II egli ammonisce i religiosi affinché “evitino il troppo parlare, che non è mai esente da colpa”. Il religioso, come pure qualsiasi persona di buon senso, è prudenzialmente tenuto ad evitare le parole futili e a considerare che il multiloquio può generare imprudenze, istintività con conseguenze dannose e a volte irrimediabili pertanto è sempre meglio ponderare le parole e valutare ogni argomento affinché si eviti scompiglio e dispersione con i nostri interlocutori.

  Francesca era anche araldo di equità e giustizia presso la sua gente, apportando sempre il proprio contributo a che in ogni cosa si esercitasse l’onestà e la coerenza e non si lasciava scomporre né intimorire dai condizionamenti dei potenti, anche quando questi tentassero di indurlo in tentazione o di corromperlo attraverso accattivanti donazioni: in alcuni casi era anzi molto determinato nel rifiutare elargizioni in denaro o in natura quando queste provenivano da guadagni illeciti o dovevano essere destinate ad opere di utilità pubblica o comunque a beneficio degli altri,  soprattutto dei bisognosi e in taluni casi con molto coraggio sfidava anche i potenti e i benestanti affinché non lesinassero nell’esercizio del bene e nella promozione del pubblico progresso.

  Oltretutto egli imponeva ai suoi religiosi di non toccare denaro, astenendosi egli stesso dal toccarlo e dal ricercarlo essendo esso definito il vischio dell’anima.

  Nel rimproverare i colpevoli recidivi e soggetti più ostinati nell’inadempienza Francesco voleva che in tutti i casi si moderasse l’impiego della verga con la manna e l’olio con il vino ossia la giustizia con la misericordia con la finalità di irrogare pene medicinali orientate al recupero del colpevole e alla presa di coscienza del male commesso e comunque sempre proporzionate alla gravità del caso e anche quando queste venivano inflitte dovevano essere accompagnate da atti di benevolenza e di fiducia nei confronti del reo che era sempre oggetto di emendazione piuttosto che di punizione. Quello della verga con la manna e l’olio con il vino è sempre stato il sistema più proporzionato di correzione da parte del Superiore di comunità e ancora adesso viene sempre preso in considerazione nell’impostazione di qualsiasi metodologia formativa all’interno delle strutture pedagoghe dell’Ordine dei Minimi.

  In san Francesco di Paola moltissima gente ha potuto così riscontrare anche un maestro di vita e un referente di formazione umana e spirituale che non poteva non suscitare l’attenzione di quanti lo osservavano e si ponevano all’ascolto dei suoi insegnamenti e di fatto l’attenzione che la sua comunicativa dolce, semplice e paterna era solita suscitare era cospicua ed elevata, abbracciando ogni sorta di popolo e di provenienza etnica e culturale.

 

1.3 Fondazioni fuori Paola

 

   Proprio la sua indiscussa fama di grande uomo di Dio non tardò a fare in modo che gli abitanti di altri centri cittadini limitrofi a Paola richiedessero la presenza di Francesco nel loro territorio: si voleva che il Paolano giungesse di persona anche in altre località della Calabria e che vi permanesse  anche per lunghi spazi di tempo, per essere di sostegno materiale e spirituale a tante persone che affluivano a lui. Uno di questi centri cittadini fu Paterno Calabro, località montana in provincia di Cosenza collocata ad una distanza molto considerevole dalla cittadina di Paola che aveva dato i natali al Santo. Per volere insistente della popolazione che attraverso alcuni suoi membri convinse Francesco a raggiungerla, in essa per volere dello stesso Francesco si edificò un secondo convento dell’Ordine eremitico[26]. La costruzione della struttura non impose parecchio tempo, soprattutto per la fervente collaborazione degli abitanti del luogo che si prodigavano nell’edificazione dei locali ora con le elargizioni in denaro ora con l’attiva partecipazione ai lavori. Anche a Paterno Calabro Francesco ebbe modo di distinguersi e di coltivare il proprio stile di uomo penitente e caritativo, apportando il proprio contributo nel nuovo luogo in cui era venuto a vivere temporaneamente per fondare. Si può affermare che Paterno Calabro è una delle tappe più significative che marcano la vita e la formazione personale di Francesco: anche qui egli predilige gli spazi di solitudine per dedicarsi alla preghiera e alla mortificazione corporale, intercalando momenti di comunicativa con intere giornate di deserto. Alcune volte si era costretti ad aspettare intere ore o addirittura lo spazio di interi giorni prima che il frate si decidesse ad uscire dalla sua cella ponendo fine alle sue meditazioni per incontrare la gente, e tuttavia non mostrava mai difficoltà alcuna nell’armonizzare la solitudine con l’impegno ministeriale.

  Raccontano i testi del Processo Cosentino di canonizzazione che in questo nuovo convento Francesco, in aggiunta ad altri miracoli di natura simile a quelli compiuti già a Paola (di una trave ne faceva due; con il tocco delle dita accendeva le candele; immergeva le mani nell’acqua bollente e toccava il fuoco senza ustionarsi) sia stato artefice di due prodigi destinati a rimanere memorabili nella storia dell’Ordine dei Minimi e della stessa cittadina calabrese, che ancora oggi conserva una vivissima devozione al Santo Paolano.

  Esortato dall’invidia di alcune persone del posto che mal sopportavano che Francesco godesse di una tanta e tale fama presso la gente, un certo P. Antonio Scozzetta dei Francescani inveì pubblicamente contro il frate di Paola descrivendolo dal pulpito come un ciarlatano, rozzo e imbroglione incapace di arte retorica e privo di ogni cognizione letteraria. Più volte ripeteva la sua aspra disapprovazione invogliando il popolo a distogliere le proprie attenzioni nei confronti del Santo.  In una certa occasione prese l’iniziativa di incontrarlo di persona nella cella privata del nuovo convento per ribadirgli il suo biasimo e la sua ostinata disapprovazione: lo redarguì apertamente con molteplici accuse, insinuazioni, esecrazioni e biasimi assumendo toni severi e intransigenti che mostravano di detestare espressamente la sua persona e il suo operato. Francesco lo ascoltò senza proferir parola, mostrando calma, pazienza e mitezza e senza per nulla scomporsi di fronte alle antipatiche avversioni del frate francescano che continuava a riprovarlo e a disprezzarlo in ogni cosa definendolo uno spartano villico impostore.

  Ad un certo punto Francesco si avvicinò al braciere della stanza che, acceso, sprigionava intanto vivissimo fuoco, si chinò, raccolse con le mani un considerevole numero di tizzoni ardenti senza provare il minimo fastidio di ustioni, si avvicinò al Padre Scozzetta e porgendoglieli disse: “Scaldatevi, per carità, avete freddo…”

  Lo stupore del frate francescano fu veramente notevole, tanto che improvvisamente cambiò atteggiamento nei confronti del Paolano inginocchiandosi ai suoi piedi e chiedendo perdono per quanto aveva in precedenza proferito.

  Paterno Calabro durante la permanenza del buon Eremita conobbe un altro miracolo degno di menzione, anche perché rappresentativo della reazione dei favori divini alle prepotenze dei governanti insolventi e refrattari ai bisogni del popolo.

  Occorre infatti ricordare che Francesco già da diverso tempio dedicava parte del suo ministero a favore del popolo anche contestando l’operato del monarca di Napoli Ferrante d’Aragona nel suo particolare abuso mai controllato di gravare la gente con possenti gabelli e assurde tassazioni. Nel 1447 Francesco aveva deplorato attraverso una lettera a un nobile di Montalto Uffugo Simone D’Alimena l’operato degli esattori delle tasse e più di una volta aveva reso nota la sua fama al re Ferrante non solamente quale uomo di buona vita e di costume ma anche quale sostenitore del popolo oppresso dagli oneri fiscali. Da parecchio tempo il monarca aveva deciso di accrescere la sorveglianza sul frate paolano e sul suo movimento eremitico, anche a motivo del consenso sempre più crescente del popolo casentino nei suoi riguardi: probabilmente si temeva una possibile sommossa o una reazione popolare che avrebbe fomentato lo stesso eremita paolano. I rapporti con la corte di Napoli non si erano tranquillizzati nemmeno dopo che il re Ferrante d’Aragona, nel 1473, aveva concesso il riconoscimento regale alla congregazione eremitica paolana che in virtù di tale opportunità poteva da quegli anni in poi costruire case religiose in tutto il territorio del regno di Napoli.[27] La tensione fra il frate e il monarca si era sempre più acquita per l’insistenza dell’umile frate a che si usasse giustizia e sollecitudine nei confronti del popolo. Francesco non intendeva smentire o screditare la legittima autorità sovrana del monarca, ma richiamare colui che avrebbe dovuto avere dei doveri di responsabilità nella realizzazione del bene comune a farsi carico delle incombenze a favore della gente oppressa; inoltre vi era stata anche un’altra causa ad incrementare con molta probabilità lo spessore degli attriti fra il fraticello e il monarca: consultato su quali sarebbero stati gli eventi delle belligeranze allora in atto in Toscana per la successione regia, il Paolano affermò che queste si sarebbero risolte senza problemi: lo stesso Eremita stava più volte cercando di pacificare le varie famiglie stesse che erano in lotta per la successione medesima e per le contese territoriali e questo fu uno degli impegni considerevoli di Francesco  a Paterno Calabro. Il pericolo maggiore che Francesco notava era però dovuto alla prospettiva che l’Italia sarebbe stata interessata dal dominio dei Turchi che avrebbero comportato fra l’altro una punizione severa da parte del Signore per il malgoverno di Ferrante, questi ritenuto dal Santo incapace di fronteggiare il loro pericolo.[28]

  Il re, inasprito da quelle che riteneva le insolenze di un semplice frate incolto e grossolano che si permetteva di riprendere un monarca, decise la soppressione del convento di Castellammare di Stabia ove già vivevano alcuni religiosi della stessa famiglia di Francesco. Verrà riaperto solo nel 1506. Prese poi l’iniziativa di inviare un drappello di soldati a Paterno Calabro con l’intento di catturare Francesco di Paola e condurlo in carcere sotto buona scorta. [29] Non appena la notizia dell’arrivo imminente dei soldati si sparse per la cittadina calabrese fu enorme lo sgomento e l’ansia che imperversò presso la gente del posto e che conquistò immediatamente anche i frati del convento. Si creò il panico e l’allarme generale e si temette per il destino del frate paolano che  intanto aveva ottenuto sempre più stima e consensi da parte del  popolo. Questi, messo al corrente del pericolo che stava correndo, non mutò la sua abituale risolutezza da uomo di spirito, ma mantenendosi calmo e fiducioso nel Signore si affidò alla volontà divina qualunque sarebbe stata la deliberazione dell’Altissimo sulla sua sorte personale. Rifiutò pertanto la proposta di alcuni frati e di moltissimi fedeli di fuggire in un luogo sicuro con la garanzia che la fuga non sarebbe stata scoperta dagli araldi del re e si recò nella chiesa del convento, dove, inginocchiatosi in preghiera, attese sereno e fiducioso l’arrivo dei soldati che in buona parte stavano già battendo la zona antistante il convento forse convinti che il Paolano fosse fuggito in altri luoghi della città o nei boschi.

  I militari regi non tardarono a fare irruzione nei luoghi sacri del convento. Misero a soqquadro tutti i locali dello stabile presidiandolo, piantonando ogni luogo con estrema attenzione e domandando agli astanti dove fosse Francesco. Lo cercarono in tutte le stanze e negli angoli più nascosti della casa, frugando in ogni luogo. Parecchi di essi si recarono anche in chiesa e cominciarono a rovistare tutti gli angoli del luogo sacro mentre egli, ancora genuflesso, proseguiva risoluto e devoto la sua raccolta preghiera davanti a loro: nonostante gli passassero ripetutamente davanti,  nessuno dei militari infatti notò la sua presenza, sebbene evidente. Per un ulteriore speciale  favore divino, Francesco si era infatti reso invisibile alla loro vista.  I confratelli eremiti, che invece avevano continuato a vederlo normalmente inginocchiato davanti all’altare, prima spauriti e in preda al panico, adesso cominciavano quasi a deridere quei soldati che si districavano inutilmente nelle ricerche senza accorgersi che il prigioniero era proprio sotto i loro occhi.

  Finalmente la figura di Francesco si rese possibile alle facoltà ottiche dei militari proprio quando gran parte di essi si trovavano nel punto in cui era sempre stato.  La meraviglia di quegli straniti soldati fu tanta e tale che restarono senza parole, caddero in ginocchio primo fra tutti il comandante della guarnigione, definito dall’Anonimo il “capitano della nave”, che tentennò parecchio prima di spiegare all’eremita paolano il motivo della loro irruzione: era volere del monarca che Francesco venisse arrestato e condotto al suo cospetto, tuttavia spiegò che lui e i suoi commilitoni sarebbero stati disposti a contravvenire al comando del re mantenendo intatta la libertà dell'eremita. Questi non mostrò alcun segno di ripicca né di rincrescimento nei loro confronti, comportandosi con loro come se non avesse mai saputo nulla delle intenzioni regali e come se notasse solo allora quegli stupiti militari. Comprese che il capitano della nave e i suoi commilitoni avevano agito semplicemente per obbedienza al monarca e non avevano colpa alcuna nei suoi riguardi essenso stati solo esecutori di ordini, ma commentò che la fede del re era fin troppo piccola e che per questo motivo non conveniva al capitano continuare a restare al suo servizio. Raccolse quindi alcune candele che consegnò allo stesso capitano con l’incarico di recarle a Ferrante e ai membri del suo casato con l'invito di riferire da parte sua che se il monarca non avesse mutato il suo atteggiamento nei confronti del popolo  la sua dinastia sarebbe andata incontro ad una fine inesorabile. Cosa che di fatto avvenne agli inizi del 1500.

  L’arresto di Francesco non ebbe luogo. Il bravo eremita pose fine lieto a tutta la vicenda invitando il capitano della nave e i suoi soldati nel refettorio del convento a rifocillarsi, offrendo loro solo due dolci e un po’ di vino che però miracolosamente si moltiplicarono in modo da permettere che tutti mangiassero a sazietà.

  Sempre a Paterno Calabro, dove si intrattenne per parecchi anni, l’onnipotenza divina fu artefice attraverso Francesco di un altro prodigio molto significativo: una giovane coppia di sposi aveva avuto un bambino inorridendo di fronte al suo volto che era risultato dal parto più che deforme. Il piccino non aveva infatti occhi né bocca e nel volto aveva assunto una configurazione che incuteva paura e ribrezzo a guardarlo. Falliti tutti i tentativi da parte della medicina e della scienza, i giovani sposi condussero il loro bambino da Francesco, che tracciando sul volto i lineamenti degli occhi, del naso e della bocca ottenne che questi comparissero effettivamente svolgendo egregiamente la loro funzione.

  Come già era avvenuto a Paola, fu artefice di moltissime guarigioni di infermi che accorrevano a lui da ogni parte presentando chi un male, chi un disturbo, chi una malattia fisica di ogni tipo e tutti veniva no esauditi nella guarigione non senza l’invito a pregare e a confidare nel Signore. Le opere di guarigione che il frate calabrese compiva suscitavano lo sdegno e l’invidia dei medici del posto che vedevano in Francesco un guaritore eccezionale che strappava loro i consensi della gente. Secondo una nota tradizione, a Paterno Calabro Francesco avrebbe operato 200 guarigioni in un solo giorno.

   Piuttosto che i miracoli e gli interventi di carattere soprannaturale,  Paterno Calabro dovette moltissimo al Santo eremita di Paola soprattutto per l'opera di riconciliazione e di pacificazione di cui egli si rese promotore all'interno delle famiglie, presso i lavoratori e i contadini del posto e in ogni altro ambito del sociale: il frate interveniva sovente nelle situazioni di conflittualità e di dissapore risolvendo parecchie animosità e contrasti che lenivano l'unità e la concordia nei nuclei familiari e presso il popolo paternese e mettendo pace nelle liti vicendevoli fra cittadini e lavoratori come quando intervenne su un caso specifico nel quale due contadini proprietari di due terreni confinanti si contendevano un albero possente che si ergeva ai proprio sulla linea di demarcazione fra il terreno dell'uno e dell'altro. La contesa era molto aspra e di difficile soluzione giacchè l'albero sorgeva proprio fra le due proprietà e anche dal punto di vista legale era molto difficile stabilire a quale dei due coloni appartenesse, mentre ciascuno dei due lo rivendicava per sé. Francesco pose fine alla questione con un solo colpo di bastone sulla corteccia della pianta: divise cioè miracolosamente l'albero esattamente a metà sicchè ciascuna delle due parti cadde nella proprietà di ciascuno dei contendenti che cessarono ogni controversia.

  Lo stesso calore di accoglienza da parte della gente Francesco riscosse anche a Spezzano Calabro, altra città della Calabria dove egli fu invitato a fondare un convento sotto l’ausilio delle masse e le donazioni di moltissimi benefattori. Anche in questi luoghi il Paolano si distinse presso il popolo per il dono della virtù e della carità e per le continue esortazioni spirituali e per i miracoli. Ma poiché si era all’epoca in tempi di fame e di precarietà a causa della carestia che aveva decimato tantissimi terreni, il frate si prodigò soprattutto per la carità nei confronti della gente che poteva contare nell’aiuto materiale dell’eremita e della sua comunità che nulla omettevano affinché tutti tornassero a casa con in mano un aiuto materiale o in denaro o sotto qualche altro aspetto. A Spezzano Calabro si verificarono due importanti vocazioni nell’Ordine futuro dei Minimi: la prima fu quella di un tale Bernardino Otranto da Cropalati, un giovane che aveva vissuto smodatamente e privo di morigeratezza dandosi ai vizi e alle cattive abitudini. Una volta si trovò a curiosare in compagnia della sua ragazza presso il nuovo convento di San Francesco spiando dalle finestre la vita del frate paolano. Questi se ne accorse, riprese severamente Bernardino e lo costrinse alla reclusione temporanea in una cella del convento, nella quale il giovane ebbe modo di riflettere, riconsiderare la propria vita e ravvedersi. Quindi chiese perdono a Francesco,che paternamente lo abbracciò e lo accolse nel numero dei suoi religiosi. La vocazione di Fra’ Bernardino da Cropalati conobbe non pochi ostacoli da parte di familiari, visto che più di una volta questi lo indussero a tornare a casa, ma alla fine vinse il buon senso e la volontà di consacrarsi interamente al Signore, per cui il giovane Bernardino, abbandonato ogni tentennamento e ogni riserva, si decise per il convento di Spezzano diventando una delle figure religiose più importanti dell’Ordine. Analoga esperienza fu quella di Giovanni Cadurio, anch’egli fidanzato, che con la propria ragazza, parimenti incuriosito, volle sbirciare nel convento. Francesco gli riservò la stessa punizione inflitta a Bernardino: Giovanni fu incarcerato anch’egli in una cella del convento nella quale si diede ai pianti e alle lamentele fino a quando il frate paolano non intervenne aiutandolo benevolmente a ravvedersi e a cambiare vita. Abbracciò anche lui con profonda convinzione la vita eremitica.

  Le altre fondazioni calabresi riguardarono Corigliano Calabro (1476) e Crotone, quest’ultima realizzata non personalmente ma su delega.

  Un’altra fondazione che non può non essere menzionata è quella del Convento di Milazzo in provincia di Messina, che determinò l’avvenimento storico che condurrà alla proclamazione di San Francesco di Paola come Patrono della Gente di mare in Italia, ad opera di Pio XII nel 1943.

    La sua partenza per  la Sicilia avvenne nell’anno 1482, quando l’eremita, accompagnato dai due confratelli P. Rendacio e Fra Giovanni di San Lucido[30], si mise in cammino alla volta della spiaggia di Reggio Calabria nel punto in cui lo stretto di Messina si restringe rendendo ravvicinate le distanze fra la costa sicula e quella di Calabria e nel quale risulta quindi più favorevole l’imbarco per l’isola di Sicilia. Durante il camminosi verificò un prodigio abbastanza singolare quanto curioso: i frati, stanchi dal viaggio e affamati, non avevano denaro per procurarsi il cibo. Si imbatterono in una comitiva di persone a cui chiesero un po’ di pane. Essi risposero loro di non possederne, dicendo effettivamente la verità: la loro bisaccia era vuota. Francesco insistette nella richiesta, prese poi in mano la bisaccia dei viandanti, vi mise la mano dentro ed estrasse un pane come appena sfornato. Lo spezzò, ne distribuì ai frati e agli sconosciuti viandanti in cui questi si erano imbattuti. Tutti mangiarono a sazietà senza che il pane si consumasse.

  Raggiunto il lido di Reggio dopo parecchi giorni di cammino, si pose per la piccola comitiva il problema dell’attraversamento dello stretto, essendo essi privi di denaro con cui pagare la traversata. Trovarono un barcaiolo che successivamente verrà conosciuto sotto il nome di Pietro Coloso in procinto di partire per Messina con la sua poderosa barca carica di legname, e pensarono bene di chiedere a lui il favore di un passaggio verso l’altra sponda, forse considerando la relativa brevità del traghettamento e al contempo il fatto che pur essendo l’imbarcazione finalizzata direttamente al trasporto delle merci non avrebbe avuto difficoltà a traghettare in via eccezionale il carco aggiuntivo di tre passeggeri per una semplice opera di carità.

  Pietro Coloso non negò di traghettare Francesco e i suoi confratelli, precisando tuttavia che la traversata avrebbe avuto un prezzo in denaro: sarebbero stati traghettati dietro pagamento.

  Furono vane le insistenze dei poveri frati che si appellarono alla carità evangelica e alla generosità  del loro interlocutore, trovando però la ferma refrattarietà di quel barcaiolo venale e irremovibile, cosicché Francesco risolse di confidare unicamente nell’aiuto di Dio. Si appartò in preghiera raccolta per alcuni istanti, poi chiamò a sé i suoi confratelli e insieme a loro si recò sulla riva del mare; si spogliò del proprio mantello, lo spiegò  e lo gettò fra i flutti marini e vi montò sopra invitando i due compagni a fare altrettanto. Questi, pieni di stupore e di meraviglia salirono non senza titubanza a bordo di quella strana imbarcazione improvvisata; la comitiva di eremiti prese così il largo affidandosi al favore del vento e della corrente marina. Il mantello di Francesco funse così da imbarcazione che trasportò incolumi i passeggeri fino alla sponda siciliana. L’iniziativa di Francesco aveva intanto attirato l’attenzione di parecchia gente, che incuriosita stava adesso un po’ per volta riversandosi sulla spiaggia per assistere all’insolito evento. Pietro Coloso, il traghettatore riluttante e per nulla generoso, notando la calma e la concentrazione con cui Francesco non si era scomposto al suo diniego e ora era riuscito ad ottenere quanto sperava con i diretti favori divini, adesso si mostrava ravveduto e mortificato e gridava a gran voce ai tre frati di tornare a riva poiché li avrebbe traghettati fino a Messina senza condizioni ma non ottenne più l'attenzione dei tre marinai improvvisati. La tradizione vuole che per tutta la vita avesse pianto ogni sera in riva al mare la sua mancata generosità.[31]

 L’attraversamento dello Stretto di Messina a bordo del mantello suggerisce la verità delle infinite possibilità della fede e di come l’affidamento fiducioso e spontaneo nel Signore supera le preclusioni e l’egoismo con cui l’uomo suole chiudersi nei confronti del prossimo, soprattutto di quanti si trovano nell’estrema e urgente necessità: l’amore di Dio vince la freddezza e la vanità dell’uomo mostrando come noi in fondo siamo meschini nel confidare esclusivamente nelle nostre certezze. L’attraversamento del mare sottolinea come in Dio e nel suo amore noi possiamo anche affrontare e superare l’imprevisto e le sorprese che la vita ci riserva, sempre se confidiamo nell’assistenza di Chi ci guida verso i liti da noi prefissati in comunione con Lui.

 


 

San Francesco di Paola attraversa lo stretto di Messina a bordo del proprio mantello. (San Francesco di Paola, vita a prodigi in 125 tavole a colori riprodotte da antiche incisioni miniate, a cura di Antonio M. Castiglione, Paola 1982)

 

  Come già si è detto, in considerazione di questo prodigio miracoloso, nella persona del papa Pio XII la Chiesa nel 1943 ha riconosciuto ufficialmente in San Francesco di Paola il Protettore della gente di mare in Italia affidando alla sua speciale intercessione i marinai, i pescatori e quanti lavorano sul mare affrontando i rischi e le intemperie molte volte partendo dalla loro terra senza fare più ritorno a casa. La potente intercessione del Santo favorisce anche coloro che nel mare trovano motivo di svago e di divertimento e richiama l’attenzione a che vengano garantite incolumità e sicurezza a tutti coloro che per un motivo o per un altro si imbarcano e affrontano i flutti marini poiché alla protezione divina va associata la salvaguardia da tutti i pericoli e dai rischi che la vita e il lavoro sul mare comportano.

  E’ interessante notare come Patrono della gente di mare sia stato proclamato un Santo in fin dei conti di provenienza montana che affrontò il mare solo poche volte  e in circostanze quasi del tutto casuali, senza in tutti i casi avere con il prezioso elemento rapporti di natura definitiva e vitale.

  Il viaggio di Francesco fino a Milazzo si svolse con molta tranquillità. Lui e i due confratelli restarono nella cittadina siciliana per diverso tempo sfruttando le buone condizioni che riscontrarono per la costruzione di un convento con relativa chiesa attigua, che fu favorita anche quì dal sostegno economico della gente del posto che aveva invitato tempo addietro il Santo nella propria città avendone conosciuta la fama di uomo perfetto e virtuoso. Si vuole che le campane della chiesa siano state costruite dallo stesso Francesco con alcune monete fondendo un considerevole numero di monete fuori corso che gli erano state date in dono dal re Ferrante d’Aragona; come pure si vuole che il Paolano, tirandola da un’estremità, abbia allungato miracolosamente una trave dalla lunghezza insufficiente a coprire due pareti del convento.

  Così pure è tradizione[32] che durante la scavatura di un pozzo il frate avesse raccolto miracolosamente due enormi pietre che sarebbero servite per la costruzione dello stesso convento e che furono le due uniche fondazioni massicce che garantirono la stabilità di ogni costruzione. Dallo stesso pozzo scavato dal Santo scaturì anche dell'acqua che in un primo momento era salmastra ed imbevibile, ma che il Santo rese potabile con un solo segno di croce.

 

 

1.4 Verso la Francia

 

  Secondo la ricostruzione e la datazione recente, mentre Francesco ancora si trovava a Milazzo fu raggiunto presumibilmente a Paola o a Paterno da alcuni emissari del re Luigi XI di Francia intenti a recargli un messaggio in cui il monarca chiedeva caldamente all’Eremita che lo raggiungesse nella sua lontana reggia per curarlo da un morbo maligno imperdonabile che lo avrebbe certamente condotto alla morte.

   Il re Luigi XI, figlio e successore di Carlo VII era stato monarca fin dal 1461 e  aveva spostato la sede regale da Parigi a Plessis Lez Tours, città a cui era molto devoto. Per il suo connaturale cinismo che lo portò a mostrare freddezza e indifferenza perfino alla morte del padre veniva definito “il ragno.” Nella sua politica era stato avversario di Carlo il Temerario di Borgogna con cui aveva intessuto relazioni poco piacevoli. Uno dei suoi obiettivi era anche quello di incidere nella successione regale del Regno di Aragona, avanzando delle pretese sul re Ferrante. Sviluppando notevolmente l’industri e il commercio, aveva promosso un’ efficiente riforma politica ed economica nella Francia del XV secolo per la quale il paese aveva raggiunto i livelli post feudali di uno stato moderno. Ammalatosi di apoplessia temette per la sua sorte e fece ricorso a parecchi medici che lo curarono senza tuttavia riuscire ad estinguere il male. Consultò anche parecchi magi e astronomi  senza nemmeno trascurare la religione nello specifico della devozione ai Santi nelle reliquie, ma non ottenne la guarigione dalla sua malattia.

  Aveva sentito parlare di Francesco di Paola da un mercante napoletano residente in Francia di nome Matteo Coppola e valutando il dono divino dei numerosissimi miracoli di guarigione per i quali questi si era reso famosissimo in tutta l’Italia meridionale, aveva pensato di chiedere il suo intervento.

  Ragion per cui, Francesco fu interpellato quando ormai aveva fatto ritorno dalla Sicilia dagli emissari della corte di Plessis Les Tour che gli presentarono la richiesta scritta del monarca a recarsi nella sua sede per operarvi il miracolo della guarigione del suo male. Il frate non avrebbe dovuto temere spesa alcuna per il viaggio in quanto la corte francese avrebbe fornito a lui e ad eventuali altri suoi accompagnatori tutti i mezzi necessari al raggiungimento di Plessis Les Tours e si promettevano anche laute ricompense. 

  Pur avendo profetizzato tempo addietro ai suoi religiosi che sarebbe stata volontà di Dio inevitabile che lui partisse per una terra lontana dalla lingua sconosciuta[33] l’ormai anziano Eremita di Paola (aveva 67 anni) rifiutò categoricamente l’invito di Luigi XVI. Come abbiamo avuto modo di notare più volte, le figure di persone facoltose, eminenti e altolocate non lo avevano mai impressionato né distolto dai suoi originari propositi e neppure avevano mai condizionato le sue scelte, tanto più che Francesco non aveva mai valutato in modo discriminante i monarchi dalla gente comune, e aveva anzi mostrato sempre preferenza per gli ultimi, i poveri e i deboli a favore dei quali era sempre stato disposto anzi a combattere contro i potenti. E anche in questa occasione non lo sconvolse l’idea di dare un diniego ad un monarca.

  Certamente sarà stato ben consapevole che in quella circostanza si chiedeva tuttavia un suo intervento miracoloso atto a salvare la vita di un uomo, tuttavia egli interpretava che la sua partenza per altri liti per quello scopo non corrispondeva alla volontà di Dio. Occorre infatti considerare che nell’eseguire i suoi numerosissimi miracoli Francesco non sempre si era reso compiacente con tutti e vi erano stati anche dei casi in cui aveva espressamente rifiutato interventi miracoloso di guarigione o di altra natura appunto perché non corrispondenti al volere di Dio. Questo avveniva specialmente quando nel soggetto non vi fosse la disponibilità di cuore verso il Signore in una fede sincera e risoluta. Come abbiamo già notato infatti Francesco era solito ripetere che “Chi non ha fede, tanto meno può aver grazia.” Quello che adesso gli si presentava era un caso puramente miracolistico nel quale un potente chiedeva ad ogni costo e senza condizioni la sola guarigione da una malattia che la scienza e la magia non era riuscita a dominare per cui ora era sufficiente qualche promessa di ricompensa perché intervenisse un capacissimo frate calabrese.

  Oltre ai motivi suddetti Francesco trovava sprone al rifiuto anche dalla constatazione che nonostante il progresso materiale e spirituale che la sua famiglia religiosa aveva acquistato nel corso di tutti quegli anni, parecchie situazioni erano rimaste ancora insolute prima fra tutte la questione di una Regola o di uno statuto ancora da approvarsi da parte dell’autorità ecclesiastica che cominciava a causare un certo senso di sfiducia da parte di non pochi frati che prospettavano addirittura il passaggio verso un altro Istituto religioso. La situazione generale della congregazione presentava poi una panoramica per la quale nel computo sarebbe stato molto sconveniente e forse anche pericoloso per il suo buon andamento se il loro Fondatore fosse stato assente.

    Il diniego deciso e perentorio di Francesco fu reiterato anche quando il re Luigi XVI chiese l’appoggio del re di Napoli Ferrante di Aragona, che inviò appositamente alcuni messi a Paterno Calabro con l’intenzione di convincere Francesco ad accogliere la richiesta di Luigi XI.

  Finalmente il monarca francese ottenne l’aiuto del papa Sisto IV che per lui si rivelò molto utile e determinante. Il pontefice, che era fra quelli che intanto stavano ostacolando Francesco nell’approvazione della sua Regola, inviò una serie di comunicazioni scritte all’eremita nelle quali questi veniva tassativamente esortato sotto pena di censura canonica ad ottemperare immediatamente alle richieste del re Luigi XVI . Francesco veniva invitato a mettersi in viaggio quanto prima possibile e ad attendere alle richieste del re di Francia.

  Con molta probabilità il papa Sisto IV aveva ritenuto opportuno costringere Francesco anche in virtù di un preciso obiettivo di risanamento dei rapporti alquanto tesi fra il regno di Francia e la Santa Sede per cui le relazioni diplomatiche fra i due uomini andavano riconciliate.

  A Francesco non restò altro da fare se non rimettersi alle severe disposizioni di Sisto IV. Tutti gli agiografi sono concordi nel riportare che la decisione di Francesco fu molto sofferta, anche perché prevedeva che si sarebbe trattato di un lungo viaggio senza ritorno: non avrebbe più rivisto la sua amata Calabria, la sorella Brigida, il nipote, i confratelli di Paola, Paterno, Spezzano e di altri luoghi limitrofi che lui stesso aveva spiritualmente accompagnato. Sarebbe entrato a far parte di una dimensione culturale del tutto diversa da quella alla quale era stato abituato e che non lo avrebbe accolto con lo stesso calore che aveva riscontrato nell’amata patria.

  Accettato comunque il dolore e lo scompenso che sempre e comunque l’obbedienza comporta, Francesco si predispose a partire per quello che per lui doveva essere il nuovo mondo e nel salutare tutti i suoi confratelli, i parenti carnali e la gente del posto trovò moltissimo sconcerto e rammarico giacchè le turbe piansero la dipartita di un uomo che era sempre stato il loro sostegno materiale e spirituale. Alla sorella Brigida, dalla quale si accomiatò con notevole commozione e che gli chiese di lasciarle un ricordo della sua assenza, consegnò un dente che lì per lì estrasse dalla sua mandibola e che ancora oggi è esposto alla pubblica venerazione nell’attuale santuario di Paola.

 

1.4. 1 Le tappe del viaggio: Salerno, Cava dei Tirreni, Napoli

 

  Francesco si mise in viaggio alla volta della corte di Francia nei primi di Febbraio dell’anno 1483, all’età di 67 anni, accompagnato da altri tre frati che il Roberti individua nel P. Bernardino Otranto, P. Cadurio e Fra’ Nicola D’Alessio[34] Aveva rifiutato di viaggiare in nave in compagnia degli emissari del re di Francia che partirono precedendolo a Napoli preferendo lui e i suoi confratelli camminare a piedi seguendo un percorso montuoso alternativo alla via del mare, in compagnia di un asinello di cui avrebbero fatto uso quando si fossero stancati del cammino. Questo per cogliere l’occasione di visitare frattanto i conventi di Corigliano Calabro e di Spezzano.

 La comitiva, salutata da una lunghissima fiumara di gente che saputa la notizia della partenza di Francesco era accorsa a salutarlo commossa e dispiaciuta, raggiunse non senza fatiche e difficoltà la zona della catena montuosa del Pollino che segna i confini fra la Calabria e la Basilicata. Dalla sommità di uno di quei monti che formano la catena, Francesco si soffermò ad osservare amorevolmente la regione che gli aveva dato i natali e che lo aveva cresciuto e formato invitandolo in una grotta, benedicendo quella terra che conservava molte ansie e molte speranze  che gli aveva regalato innumerevoli elargizioni umane e spirituali. Lo sguardo fu molto attento, benedicente e denso di commozione poiché misto a consapevolezza che egli non sarebbe più tornato a calpestare quei luoghi così ameni e generosi anche se non privi di contrasti e di tensioni: prevedeva che il suo viaggio verso l'Oltralpe sarebbe stato senza ritorno e che non avrebbe più avuto la preziosa opportunità di tornare ad interagire con la gente con cui si era configurato per condividerne le   fatiche e le emozioni. Coltivava tuttavia la fiducia che il Signore non avrebbe mai abbandonato quei luoghi e che egli stesso li avrebbe un giorno benedetti dalla dimensione della gloria celeste nella quale sarebbe stato assunto.

  E’ tradizione che sulla roccia di quel monte dove posò i piedi per rivolgere il suo sguardo attento e caloroso siano rimaste indelebili alcune impronte.[35]

  Riprendendo il cammino, il piccolo gruppetto raggiunse la località di Castelluccio in provincia di Potenza dove Francesco incontrando un viandante al quale chiese un po’ di vino e questi non ne aveva fece trovare miracolosamente la botte piena. Da qui si passò a Lauria, dove avvenne un altro miracolo considerevole per la storia della vita del Paolano: consumatisi i ferri ai piedi dell’asinello di nome Martinello che la comitiva portava con sé, Francesco si rivolse a un maniscalco della zona che provvide a sostituirglieli per intero. A lavoro eseguito, l’artigiano chiese di essere pagato, ma Francesco fece notare che non possedeva denaro e si appellò alla carità di quell’uomo, che invece cominciò ad imprecare. Al che Francesco invitò Martinello a restituire i ferri che gli erano stati messi agli zoccoli con possenti saldature. Al che l’asinello con un semplice strattone lasciò cadere i ferri sul pavimento davanti allo stupore del maniscalco che adesso chiedeva, mortificato, di eseguire nuovamente il lavoro gratuitamente. Cosa che non gli fu permessa.

  Giunti a Polla, i frati furono ospitati nella casa di una caritatevole donna dove passarono la notte e alla quale Francesco, come segno di ricompensa, lasciò il suo ritratto disegnato con il carbone su una parete di casa.[36] Da Polla si arrivò a Salerno dove la comitiva fu accolta dalle ovazioni di una folla molto eccitata ed entusiasta e venne ospitata dalla famiglia Capograsso costituita da due coniugi che non avevano avuto il dono di figli e ai quali Francesco profetizzò che avrebbero presto molti figli ma raccomandava che al primo di essi si desse il nome di Francesco Maria.Nel congedarsi da Salerno, Francesco indicò anche il luogo fuori dal centro nel quale un giorno sarebbe sorto un convento dei Minimi. A Cava dei tirreni venne invitato a porre la prima pietra per l’edificazione di una chiesa del Ss. Nome di Gesù e operò diversi miracoli di guarigione.

  Finalmente Francesco e i suoi compagni giunsero, tanto attesi, a Napoli dove intanto erano giunti ormai da diversi giorni gli emissari del re Luigi XI alla corte del Re Ferrante.

  Il popolo partenopeo accolse con grande clamore e concitazione il Paolano che fece ingresso nella capitale del Regno dalla porta Capuana mentre la folla, trattenuta a stento, faceva ala al corteo dello stesso frate accompagnato dai suoi confratelli, esaltando la sua persona, le virtù e il dono dei miracoli. Si trattava del popolo che aveva sempre confidato nella bontà del frate calabrese, nella sua spontanea generosità e nel suo impegno per la giustizia e per la pace e che adesso gli stava esprimendo gratitudine e riconoscenza attraverso un’accoglienza degna delle più alti personalità politiche o ecclesiastiche. A porta Capuana i quattro religiosi trovarono ad accoglierli anche il Re Ferrante d’Aragona, il monarca con il quale Francesco aveva avuto attriti e occasioni di inimicizia e con il quale i rapporti non si erano ancora del tutto stabilizzati a motivo dell’insistenza del frate paolano sulla necessità che il monarca assumesse un comportamento politico atto a favorire la causa dei piccoli e degli umili del popolo. Adesso il Re Ferrante confidava che la presenza di Francesco e il suo viaggio verso la corte di Plessis Le Tours potesse costituire uno sprone alla salvaguardia della stabilità del paese soprattutto attraverso una particolare mediazione diplomatica con Luigi XI che aspirava ad interferire nelle questioni di successione al trono aragonese. A Ferrante stava a cuore anche che la Francia si disponesse ad appoggiare Napoli nell’eventualità che i Turchi assediassero nuovamente il territorio.

   La presenza del frate sarebbe stata pertanto producente in ogni caso.   Francesco e i suoi vennero accompagnati presso il palazzo reale di Napoli. Il Paolano  avrebbe preferito alloggiare nell’allora piccolo convento che ospitava alcuni suoi religiosi sul declivio di un colle sperduto e desolato[37] ma dietro le continue insistenze del re accettò l’ospitalità negli appartamenti regi.

  La permanenza di Francesco alla corte del Re di Napoli si protrasse per alcuni giorni e fu caratterizzata da due avvenimenti emblematici che sconvolsero i presenti ma che non mancano ancora oggi di richiamare l’attenzione sui determinati valori che anche l’attualità sembra svilire o non considerare con la giusta attenzione: invitato a prendere posto a tavola con i suoi confratelli, Francesco ricevette una portata a base di pesce fritto e dopo che ebbe benedetto tutti quei pesci cucinati a dovere essi ritornarono prodigiosamente in vita sotto gli occhi inebetiti degli astanti e furono deposti in due recipienti dentro i quali iniziarono a guizzare. 

  Il frate paolano spiegò che come lui aveva ridato la vita a quei poveri esseri marini, così era necessario che si restituisse la libertà a tante persone rinchiuse nelle carceri del regno.

  In una seconda occasione Ferrante d’Aragona offrì al Paolano un vassoio colmo di monete d’oro. Francesco ne osservò il contenuto, raccolse una moneta dal mucchio, la spezzò con le dita e da essa scaturì copioso sangue umano. Di fronte al generale sbigottimento dello stesso monarca e dei presenti, l’onestissimo e incorruttibile frate paolano commentò che quello era il sangue dei sudditi vessati e umiliati dal malgoverno aragonese, verso i quali era ora che si rendesse giustizia.

  Non vi sono elementi storici né testimonianze valide per appurare che i due suddetti episodi siano veritieri poiché si fondano piuttosto sui dati della tradizione non comprovati; quello che tuttavia è importante sottolineare è che Francesco comunque si mostrò sempre davvero molto tenace e costante nel riprendere le ingiustizie e le prepotenze dei monarchi quando si trattasse di rivendicare la giustizia e la promozione del bene comune del popolo. La determinazione con cui riaffermava i diritti dei più poveri e delle classi sociali più reiette e dimenticate lo portava a non lasciarsi condizionare né corrompere da alcuna promessa accattivante e a rifuggire ogni compromesso e in questo senso a lui si deve il ruolo di pacificazione e di promozione della giustizia sociale e del progresso del popolo come pure della serietà nella tutela dell’interesse collettivo.

 

1. 4. 2 A Roma da papa Sisto IV

 

 Partendo da Napoli la comitiva di Francesco fu osannata e applaudita dalla una folla di gente pari a quella che aveva notato all’arrivo. Il frate accettò in ogni caso che il re Ferrante costruisse un nuovo convento minimo sul declivio del colle in cui già esisteva una comunità di religiosi e lo stesso re Ferrante mise a disposizione della piccola comitiva un’imbarcazione per la prosecuzione del viaggio incaricando il figlio Federico di accompagnare il gruppo fino a Plessis Les Tours.

  Raggiunta la località di Ostia, la nave imboccò la foce del Tevere e improvvisamente rimase incagliata in un banco di sabbia; si provò ad alleggerire il carico gettandone una parte nel fiume onde ottenere che si disincagliasse ma i tentativi di ripristinare la navigazione furono vani. Francesco scese a terra, percorse alcune centinaia di metri addentrandosi in un luogo boschivo dove si soffermò in preghiera; dopo alcuni istanti la nave tornò a navigare regolarmente come se mai fosse incappata nella sabbia.

  A Roma il gruppetto fu accolto dall’ambasciatore di Francia che condusse Francesco e i suoi in udienze dal papa Sisto IV. I biografi raccontano della serenità dei colloqui che il pontefice intesse con l’umile fraticello restando ammirato dalla bravura e dalla compostezza con cui un eremita incolto potesse presenziare a corte pontificia: Francesco espresse somma gratitudine per l’ottenuta approvazione del movimento dei Frati eremiti, presentò al papa la sua congregazione e si rese garante per se stesso e per tutti i suoi frati di una riverente obbedienza al Signore nella persona del Vicario di Cristo. Il papa nutrì molta stima nei confronti del Santo e lo invitò anche in udienza privata con molta onorificenza proponendogli anche la possibilità di essere ordinato sacerdote.

  Il frate non si ritenne all’altezza di tale prospettiva perché indegno e immeritorio e garbatamente la rifiutò, chiedendo e ottenendo tuttavia la possibilità di benedire le coroncine dei rosari e gli oggetti religiosi.

  Durante il resto della sua permanenza a Roma, che fu di sette o otto giorni complessivi, Francesco fu visitato come di consueto da una moltitudine di popolo dalle varie provenienze culturali che gli rendevano grande venerazione e omaggio e anche fra le persone più altolocate del mondo politico ed ecclesiastico vi era chi volentieri gli fece visita. Uno dei personaggi più illustri che si presentò alla vista di Fancesco fu il famoso Lorenzo De’ Medici di Firenze che fece visita al Paolano recando con sé il proprio figlioletto di sette anni, Giovanni De Medici. Nel salutare questo fanciullino, Francesco gli predisse che sarebbe diventato un giorno papa e che avrebbe provveduto alla sua canonizzazione. E infatti il 2 Marzo 1513 Giovanni De Medici verrà eletto papa con il nome di Leone X e nel 1519 (4 Maggio) elevò Francesco di Paola all’onore degli altari.

 

1.4. 3 Alla corte di Plessis Le Tours

 

  Francesco dovette ripartire da Roma con molta celerità, poiché intanto il re Luigi XI attendeva con ansia l’arrivo del Paolano e  aveva sollecitato i suoi ambasciatori a che il suo arrivo in Francia  avvenisse quanto prima. Cosicché, raggiunta nuovamente Ostia e la foce del Tevere, ci si rimise in viaggio alla volta di Marsiglia. Avvenne tuttavia un altro imprevisto: per un fenomeno naturale ricorrente, le acque del fiume avevano ridotto la loro portata in modo tale da risultare insufficienti a che la nave potesse reggersi a galla. Il problema venne preso di petto dai marinai e dall’equipaggio dell’imbarcazione che non sapevano come ovviare al problema. Francesco li invitò a scandagliare un’altra volta il livello delle acque poiché a suo dire le avrebbero trovate in misura adeguata e soddisfacente. Così infatti era avvenuto: per un ulteriore avvenimento prodigioso, le acque del fiume tornarono ad essere copiose in modo da favorire tranquillamente la navigazione della barca che raggiunse il Tirreno per proseguire il suo percorso.

  Raggiunto il Golfo di Genova, racconti svariati e non comprovati riferiscono che Francesco osservando dal largo il capoluogo ligure, avesse indicato il sito esatto sul quale sarebbe sorto dopo non molto tempo il convento dei Minimi che oggi è uno storico Santuario dedicato ai Marinai; altri aggiungono altresì il frate sarebbe sbarcato a Genova per essere ospitato dal principe Andrea Doria, ipotesi questa poco accettabile, considerando che la fretta che aveva incusso il re dio Francia non avrebbe potuto consentire in alcun modo altre soste impreviste dei viandanti. Quanto alla predizione sul futuro convento, le testimonianze al processo calabro di canonizzazione[38] dicono che il passaggio sul Golfo di Genova si sarebbe svolto a distanza considerevole dalla riva del capoluogo per cui non ne sarebbe stata resa possibile la visuale panoramica e di conseguenza la profezia suddetta da parte del Santo risulta impossibile. Il Roberti, che smentisce categoricamente questa ipotesi è dell’opinione che essa sia solo la scaturigine dei pii desideri comuni di ottenere la fondazione di conventi nei propri luoghi, ma vi è anche chi ha elementi a favore della possibilità di un effettivo sbarco a Genova del Paolano con relativa profezia.[39]

  Raggiunto il golfo di Lione la nave fu minacciata dalla presenza di un galeone di pirati che mirava ad assalire i nostri religiosi e gli uomini dell’equipaggio che cominciarono ad essere presi da timore. Francesco, che per tutta la traversata aveva osservato un religioso raccoglimento solitario di preghiera, invitò tutti alla calma e alla fiducia nel Signore. Dopo qualche istante la nave dei pirati rimase immobile nel punto in cui si trovava, mentre la barca dei frati proseguiva indisturbata il suo percorso uscendo indenne da ogni pericolo di aggressione.

  Quando l’imbarcazione raggiunse il porto di Marsiglia, a causa di una potente epidemia che era insorta non le fu consentito di approdare, sicchè si dovette ricorrere agli approdi della baia di Bormes dove il Santo e i suoi compagni sbarcarono ringraziando gli uomini cortigiani che li avevano accompagnati e che adesso rientravano a Napoli. Ciò non prima che il Paolano si fosse confessato, visto che la sua preparazione ad affrontare quello che per lui era un nuovo mondo doveva riguardare tutti i punti di vista, non ultimo quello spirituale. Fra l’altro non era escluso che quelle potessero essere le ultime tappe della sua vita.

  Anche la città di Bormes era in preda alla peste, ma Francesco, per il quale furono aperte le porte subitaneamente, con un segno di benedizione pose fine all’epidemia ottenendo la gratitudine dell’intera cittadinanza che dedicherà a lui la prima chiesa. Evidentemente la fama del santo Eremita calabrese doveva avere oltrepassato le alpi se è vero che anche in questa terra moltissima gente accorse a salutare l’arrivo del frate.

 

1.4.4 Francesco, re Luigi XI  i successori

 

  Il viaggio di Francesco in territorio francese fu molto favorevole, anche perché agevolato dai mezzi che il re Luigi XI metteva a disposizione; si mosse attraverso la Provenza e il Delfinato, raggiungendo Vienna e Lione; l’Anonimo racconta che man mano che il Paolano procedeva dispensava miracoli di guarigione agli ammalati che incontrava sul suo cammino.[40]

  Finalmente giunse alle porte della città di Tour dove il Re Luigi XVI lo accolse benevolmente e con molta gioia e riconoscenza, dimostrando che era sempre stato impaziente nell’attesa che l’eremita paolano facesse ingresso nei suoi spazi regali. Lo accompagnò assieme ai tre confratelli viandanti nell’appartamento del parco reale di Plessis Le  Tours a loro riservato, che si trovava presso l’ospizio della chiesa dedicata a San Mattia, pretendendo dal suo personale di corte che la comitiva fosse servita e riverita con tutti i riguardi. Tuttavia il monarca non tardò a mostrarsi abbastanza malizioso nei confronti del nuovo ospite poiché intese saggiarne le virtù di povertà e di ristrettezza penitenziale, forse per nulla convinto delle qualità di quell’eremita di cui aveva sempre sentito parlare come di un uomo saggio e di spiccata virtù con un particolare dono divino dei miracoli, soprattutto in campo di guarigione, che tuttavia sembrava temporeggiare nell’intervenire in favore della sua salute. Aveva ricevuto moltissime altre visite di persone religiosamente preparate e di cui si era sentito parlare come uomini sapienti e di grande perfezione morale e spirituale me che si erano rivelati molto preso dei ciarlatani ed impostori, e poiché Francesco non si decideva ad intervenire con un miracolo che restituisse la salute al monarca, aveva cominciato a sospettare che Francesco non fosse differente da questi ultimi.

   Cosicché, non molto tempo dopo il suo arrivo, gli inviò attraverso i paggi di corte alcuni oggetti d’oro e d’argento in omaggio, come scodelle, stoviglie e posate, che il Santo rifiutò categoricamente dicendo che sarebbe stato meglio restituire quella roba ai legittimi proprietari e che non era da preferirsi per un eremita semplice e austero che si consumasse il pasto su vassoi e posate d’argento. Chiese che gli fossero mandati utensili in legno.

  Una seconda prova è quella che ancora oggi rende l’idea della vera devozione di Francesco alla Madonna costituita dal vero amore verso la Vergine che non ammette esteriorità e vanità alcuna. Infatti il re Luigi XI volle inviargli in donazione un quadro della Madonna in oro puro che in seguito verrà accolto dal convento di un’altra congregazione religiosa; Francesco lo rifiutò con la stessa perentorietà di prima, giustificandosi con l’idea che la vera devozione consiste nella Vergine che è in Cielo e non già nell’oro puro. Per esternare i suoi sentimenti di pietà verso Maria in modo tangibile gli era sufficiente fare uso di una immaginetta di carta. Per la terza volta il re lo volle mettere alla prova, questa volta incontrandolo di persona per fargli dono egli medesimo di un galero pieno di scudi preziosi con i quali avrebbe potuto costruire un convento a Roma. Francesco ricusò anche questa offerta invitando il monarca a restituire quegli scudi a coloro ai quali erano stati espropriati ossia ai cittadini e ai poveri oppressi dalle tasse.

  Il re suggerì anche che parte di questi doni presentatigli Francesco potesse destinarli in opere di bene a favore dei poveri, ma l’Eremita fu altrettanto pronto nel rispondere che ai poveri della regione avrebbero dovuto già provvedere gli elemosinieri di corte, ed  esortò di conseguenza che essi si assumessero detta responsabilità di servizio al prossimo.

  Il monarca cominciò a mostrare sdegno nei confronti di Francesco e del suo modo di agire e di relazionarsi, ma soprattutto non tardò a nutrire risentimenti e acredini interiori a motivo del non ancora avvenuto intervento miracoloso di Francesco, il quale non si lasciò mortificare neppure dalle lettere del papa Sisto IV, al quale Luigi XI decise di fare ricorso e che adesso gli imponevano la realizzazione del miracolo di guarigione sul re di Francia, pena la comunica pontificia.

  Francesco aveva intuito sin da quando si trovava ancora in Calabria che non sarebbe stata volontà di Dio che il re Luigi XI ricevesse la guarigione portentosa dal proprio male e per questo motivo si mostrava impassibile e determinato di fronte alle insistenze dello stesso re e del papa poiché aveva già esperito che se il volere di Dio si orienta verso altre direzioni a nulla vale la caparbia ostinazione dell’uomo nel realizzare i suoi controproducenti progetti, ragion per cui si mostrò inflessibile e mantenne la sua consueta calma e disinvoltura realizzando in cuor suo quello che poteva essere il disegno del Padre nei confronti del re di Francia. Se infatti da una parte Francesco si precludeva all’esecuzione del miracolo, dall’altra non si mostrava affatto indifferente alla problematica del destino personale di Luigi XI e nella preghiera solitaria e fiduciosa che anche in quel posto stava coltivando aveva certo chiesto a Dio di poterlo illuminare in merito.

  Risolse che il Signore aveva stabilito che il Re Luigi XI doveva accettare il trapasso con serenità e disinvoltura, senza forzare il volere dell’Altissimo e che doveva predisporsi santamente al transito da questa all’altra vita e tale era l’argomento di conversazione che in modo sottile e diplomatico intraprese per parecchi giorni con il monarca: attraverso colloqui frequenti, spontanei, fraterni  intervallati da lunghissimi isolamenti di orazione, Francesco un po’ per volta riuscì ad ottenere l’apertura del cuore del re alla conversione. Questo fu a mio avviso il miracolo più grande che Francesco e qualsiasi altro Santo sia mai stato in grado di realizzare: convincere il re Luigi ad andare incontro al Dio della vita che lo aspettava nella sua gloriosa casa, predisponendosi santamente al trapasso attraverso una presa di coscienza radicale della vanità del male commesso e della necessità di tornare alla comunione con Dio che per primo ci chiama a sé. Come vedremo più avanti nella nostra analisi, San Francesco di Paola fu il Santo della penitenza, questa intesa come radicale rinnovamento della propria persona in vista dell’incontro con Dio in questa e nell’altra vita, e siccome la penitenza vive una tensione escatologica essa si proietta anche verso il futuro ultimo della  nostra vita.

   Aiutare il monarca a rinunciare al miracolo equivalse per Francesco a ricordare anche a tutti noi che fra l’altro la morte resta pur sempre il destino connaturale dell’uomo e che pertanto quando essa debba mostrare il suo spettro in un determinato momento della nostra vita deve essere accettata con risolutezza e coraggio, oltretutto perchè nell’ottica della nostra fede essa non coincide con la fine di tutte le cose ma con una dimensione invidiabile di gioia che potremo solo esperire e di cui adesso è difficile parlare appunto perché dimensione futura che ci promette la nostra fede: la vita eterna.

   Luigi XI passò così progressivamente dallo sdegno iniziale al processo di radicale trasformazione di se stesso nei pensieri, nelle opere e di conseguenza nelle azioni, comprendendo l’amore di Dio e la necessità che questo si renda esplicito nel prossimo. Accolse serenamente i suggerimenti dell’umile frate di Paola consentendo che il papa ricevesse il pagamento delle decime arretrate e la restituzione dei territori espropriati in precedenza come pure la garanzia della pacificazione fra la Francia e la Santa Sede. Anche il Re Ferrante ottenne benefici dalla mediazione riconciliatrice di Francesco, secondo i desideri che aveva da sempre nutrito e pertanto vi fu la garanzia del sostegno della Francia al regno di Napoli nella possibilità di un nuovo dominio da parte dei Turchi e Napoli non avrebbe avuto più nulla da temere quanto alla stabilità del suo regno.

  Altre terre, sempre dietro amorevole suggerimento di Francesco vennero cedute anche alla Spagna, a cui erano state espropriate in precedenza.

  Luigi XI si preparò così a chiudere gli occhi nella serenità e nella pace, chiedendo all’Eremita paolano che restasse ancora nella sua reggia almeno fino al momento del suo decesso. Anzi, raccomandò al frate che si intrattenesse da loro fino a quando il figlio Carlo, erede al trono, non avesse raggiunto la maggiore età per l’esercizio del governo ottenendo l’assenso di Francesco, che in verità, pur essendosi ormai rassegnato alle previsioni di dover restare per sempre lontano dalla sua terra d’origine, coltivava tuttavia la speranza che Dio gli concedesse di poter tornare a casa: fermo restando che Francesco riteneva indiscutibile il progetto divino su di lui, qualunque esso si fosse rivelato, non cessava tuttavia di sperare che il Signore potesse concederli il rientro presso i suoi familiari e la sua gente di Calabria.

  Il re Luigi XI morì serenamente dopo aver ricevuto i Sacramenti sempre dietro assistenza spirituale di Francesco, il 30 Agosto 1483 dopo un improvviso aggravarsi della sua malattia, lasciando la reggenza del regno alla figlia maggiore Anna, in attesa che maturassero i tempi per il futuro Carlo VIII.

  Anche per Anna la presenza di Francesco fu molto fruttuosa e non mancò di apportare prosperità  e doni, soprattutto perché, da sempre desiderosa di avere prole, ella venne premiata dalla predizione di Francesco che le promise che avrebbe avuto dei figli quanto prima.

  Come pure Carlo VIII, successore al trono di Luigi dopo la reggenza di Anna che ebbe benedetto dal frate il suo matrimonio con la duchessa Anna attraverso una guarigione miracolosa della stessa: ammalatasi gravemente al punto di contare i propri giorni, Anna ricevette in dono da Francesco tre mele con l raccomandazione di mangiarle, poiché così sarebbe guarita. Nonostante il parere discorde dei medici che la invitavano a non ingerirle, ella invece le mangiò e ottenne la guarigione immediata secondo le previsioni del Santo.[41] Francesco profetizzò per lei la nascita di un figlio che di fatto avvenne di li a poco.

  Durante il suo governo, Carlo VIII fu interessato però dalla successione regale del casato di Napoli. Tale problema, che non aveva avuto più luogo dagli ultimi mesi di Luigi XI era tornato adesso ad emergere dopo la morte a Napoli di re Ferrante e la successione al trono di Alfonso II, poiché appunto Carlo VIII ambì al possesso del regno di Napoli e non riconobbe il nuovo re Alfonso II, anche perché nell’epoca dei fatti si stava svolgendo intanto un’opera rinnovamento morale e spirituale della Chiesa e una crociata preventiva contro i Turchi per la quale l’annessione del regno di Napoli avrebbe fatto comodo. Di conseguenza, Carlo VIII deliberò di valicare le Alpi per giungere a Napoli ove prendere possesso del Regno; quando raggiunse la città partenopea accolto e acclamato dal popolo, il re Alfonso II fuggì in esilio lasciando il Regno a Ferdinando I.[42]

  L’arrivo di Carlo VIII in Italia non piacque però agli altri stati di cui il paese era costituito, i quali temevano l’inizio di uno spietato predominio dei Francesi sul nostro territorio e per scongiurare ogni pericolo si coalizzarono con altri stati europei per muovere guerra a Carlo VIII. Questi fu costretto a riturarsi in Francia ma fu sorpreso a Fornovo dalla lega degli stati italiani che gli mossero strenuamente battaglia costringendolo alla resa definitiva e al rientro in Patria.

  Morirà accidentalmente nel 1498 all’età di 28 anni.

  In quell’anno l’Eremita calabrese aveva ormai raggiunti gli 82 anni di età. Come si è detto, egli pur sottomettendosi fermamente al volere di Dio qualunque fosse stato il suo destino, aveva da sempre coltivato in cuore il sogno di rivedere, almeno prima di transitare al Padre, la sua amata e sospirata Calabria della quale aveva sempre serbato un gran ricordo e coltivato un legame di affetto spirituale e sentimentale. Dopo la morte di Carlo VIII, per il quale aveva pregato e digiunato a lungo durante il suo progetto di discesa in Italia, avendo ormai deliberato che il suo impegno di guida spirituale della corte, preso in precedenza con Luigi XI , fosse ormai terminato, chiese al nuovo monarca Luigi XII di fare ritorno tranquillamente a casa. Il nuovo re, che evidentemente non aveva avuto da giovane gli stessi legami con Francesco che avevano avuto i suoi predecessori, non ebbe difficoltà a concedergli quanto questi chiedeva e lasciò che il frate con alcuni suoi confratelli prendesse liberamente la decisione di ritornare in Calabria.

  Francesco si diede allora ai preparativi per la realizzazione del progetto da sempre agognato, ma non mancarono le repliche di moltissime persone anche di fattezza nobiliare e appartenenti alle alte vette del ceto che impedirono la partenza al Santo, esortando e convindendo il re Luigi XII a revocare il permesso. Lo stesso Luigi XII, prima forse un po’ distaccato, andò convincendosi un po’ per volta della santità e delle virtù carismatiche del “buon uomo” Francesco di Paola, riservandogli non pochi onori e prestigi e nutrendo sommo rispetto e riverenza nei suoi confronti.

 Cosicché svanì l’unica possibilità per Francesco di rivedere la propria terra. La permanenza alla corte di Plessis Le Tours permise al Santo di seguire spiritualmente Giovanna di Valois, moglie dello stesso Luigi XII e figlia di Luigi XI[43] che aveva contratto matrimonio solo sotto pressione coatta del padre ma senza che vi fosse alcuna relazione fra i due. Il loro matrimonio fu riconosciuto nullo da papa Alessandro VI, che dopo opportuni accertamenti canonici riscontò effettivo e certo che l’unione sponsale era avvenuta sotto costrizione esterna e pertanto non si davano gli elementi di autenticità sponsale. Cosicché Luigi XII, libero, potè sposare Anna di Bretagna e attuare una politica di alleanza fra il regno di Francia e il ducato di Bretagna. 

  Giovanna ricevette in dotazione da Luigi XII il ducato di Berry e potette disporre così di una dimora nella quale trascorrere la sua vita in solitudine; si dedicò assiduamente alla preghiera e al raccoglimento e associò tali dedizioni alle opere di carità, avvalendosi in tutti questi casi della direzione spirituale di Francesco, con il quale ebbe ad instaurare continui colloqui consolidando sempre più i suoi rapporti che la indussero a realizzare la propria vita in un crescendo di santità e di virtù evangeliche, ragion per cui la si può definire una figlia spirituale del Paolano. La tradizione dell’Ordine dei Minimi, non comprovata, vuole che Giovanna sia entrata a far parte del Terzo Ordine dei Minimi che intanto Francesco aveva fondato. Morì il 4 Febbraio 1505, per essere elevata alla gloria degli altari nel 1950 da Pio XII. Nel 1968 papa Paolo VI la nominerà Patrona del Terz’Ordine di San Francesco di Paola.

 

 

 

       
   


 

 

San Francesco di Paola viene accolto dal re Luigi XI a Plessis Le Tours, che il Santo accompagna al pio transito sereno.(San Francesco di Paola, vita a prodigi in 125 tavole a colori riprodotte da antiche incisioni miniate, a cura di Antonio M. Castiglione, Paola 1982)

 

 

  1. 5 La vita francese del paolano e le fondazioni europee

 

  Per tutto il tempo che visse alla corte reale di Plessis Le Tours Francesco non si limitò a fungere da guida spirituale ai monarchi che erano succeduti a Luigi XI, ma si prodigò alacremente per il buon andamento della vita eremitica anche in territorio Francese, così come aveva fatto a Paola e dintorni, insistendo sull’osservanza della Regola ancora non approvata definitivamente dalla Santa Sede, sull’adempimento della Vita Quaresimale e i relativi digiuni, preghiere e astinenze e sulla buona condotta dei suoi religiosi. L’impatto con al nuova cultura e con la mentalità d’oltralpe non era stato per niente facile, poiché la comitiva degli umili frati aveva dovuto affrontare contesti e forme di pensiero del tutto differenti da quelli a cui erano stati abituati e anche la lingua aveva costituito un grosso ostacolo per la socializzazione di Francesco, che con molta probabilità dovette fare ricorso inizialmente agli interpreti messi a disposizione dal re Luigi XI. L’ambiente nuovo era del tutto ostile almeno sulle prime e certamente tale diversità incise notevolmente sullo stile di vita dei frati penitenti. Nonostante ciò, Francesco mantenne pressocchè inalterato il suo proposito di menare vita solitaria e di mantenere pressocchè inalterate le caratteristiche di vita che aveva adottate agli inizi della sua esperienza spirituale. Come noteremo più avanti, vi saranno alcune differenze fra il deserto di Paola e quello di Tours, ma non saranno tali da compromettere il generale stato di santità del frate eremita e penitente. Anzi, il carisma di Francesco, così come era stato vissuto nel sud Italia, così veniva ad essere presentato come realtà affascinante in Francia. Anche se intratteneva non di rado incontri con i monarchi e i dignitari di corte che lo tenevano in grande stima, Francesco continuò sempre a coltivare come tesoro caro e insostituibile la vita eremitica nella sua cella nel parco reale di Plessis Le Tour, isolandosi per intere giornate e a volte anche per intere settimane, tanto che in una determinata occasione, non vedendolo più uscire dalla propria cella i religiosi e gli uomini di corte cominciarono a sospettare che fosse morto e si diedero ad origliare dietro la porta della sua piccola dimora dopo avervi bussato e ribussato senza ottenere risposta. Solo quando Francesco, dall’interno, con un colpo leggero di tosse, diede segni di essere ancora vivo e vegeto, tutti si tranquillizzarono.

  Le pause di riflessione nella sua cella, come già era avvenuto in quella di Paterno Calabro, Paola e in altri conventi in cui si era recato, erano molto prolungate e accompagnate da stretti digiuni e mortificazioni corporali, il che edificava moltissimo chiunque lo incontrava e aveva modo di conversare con lui, soprattutto perché nella sua vita ascetica e ritirata egli dimostrava un grande attaccamento a Dio che riusciva a trasmettere anche ai suoi interlocutori, entusiasmando tutti con la semplicità e la dolcezza spontanea delle sue parole e dei suoi atti. Avveniva che anche qui in Francia Francesco era oggetto di attenzione da parte di moltissima gente che a frotte accedeva alla sua cella per consultarlo o nella speranza di ottenere qualche speciale favor divino; era ricercato da tutti e ambito dalle folle, nonché apprezzato anche per un solo consiglio dai nobili e dalle autorità del clero locale. I Testi 32 e 38 al Processo Touronense[44] esaltano le qualità di umiltà, bontà e perfezione evangelica di questo frate penitente. Il primo di essi è Pietro Corvoisier, barbiere dei frati al tempo di Francesco, che a motivo della sua attività si recava ogni settimana nei luoghi del convento intrattenendosi a conversare con il Paolano che lo esortava all’osservanza dei moniti evangelici e dei precetti divini, riscontrando come i confratelli definissero Francesco uomo di umiltà e di bontà immensa.  Il teste racconta anche che essendosi ammalato gravemente il proprio figlio, fu guarito miracolosamente dall’intercessione di Francesco. Il teste 38 è invece il Padre Leonardo Barbier, religioso Minimo che ebbe modo di essere accolto nella congregazione dallo stesso Santo e che attesta di averlo visto sempre vivere in orazione anche per intere giornate dentro la sua cella nella quale si ritirava in preghiera. Il Padre attesta che egli partecipasse alle divine liturgie con fare molto raccolto e devoto, mostrando molto amore verso l’Eucarestia e sottomissione riverente nei confronti dei sacerdoti che la celebravano e ai quali baciava la mano. Era sempre parco nel vitto, questo consumato solo una volt al giorno, a base di pane, legumi, ortaggi ed erbe consumati sempre in modo limitato. Mostrava con tutti docilità, mansuetudine ed umiltà e quando il tempo lo consentiva impiegava anche giornate intere alla coltivazione dell’orto del parco reale, lavorando di zappa e coltivando alcuni prodotti della terra. Il lavoro era infatti una costante che sempre mantenne impegnato l’uomo di Dio. Alle suddette testimonianze se ne aggiungono altre che rendono fondata l’esistenza di siffatte virtù nell’uomo di Dio ed esaltano il valore della sua persona nel contesto immediato dei rapporti con gli uomini del suo tempo. Anche un pittore di corte, Giovanni Bourdichon, che ritrasse i caratteri somatici di Francesco, lo descrisse come un uomo apprezzabile per la sua grande umiltà e per le doti umane che attirarono egli stesso ad intrattenersi volentieri con lui in conversazione; il pittore riferisce anche di testimonianze indirette da quanti riferirono della vita del Paolano in Calabria.

  Non trascorse molto tempo che la prima famigliola di eremiti con cui condivideva la sua vita e la sua spiritualità, proprio a motivo della condotta austera e caritativa che il suo Fondatore conduceva e di cui aveva reso discepoli i suoi confratelli, riscosse molti consensi anche in fatto di nuove vocazioni: si ripetè lo stesso fenomeno delle orini paolane dell’affluenza di nuovi frati in convento, tanto che dalla prima piccola dimora, ai tempi del re Carlo VIII, si dovette passare ad un altro luogo conventuale costruito dallo stesso monarca fuori dal recinto del parco, nella zona denominata Montils. Nel corso delle loro successioni al trono, i vari re di Francia confermarono sempre i privilegi concessi alla famiglia eremitica prendendo a propria tutela i conventi che si andarono costruendo successivamente e finanziandone la costruzione non di rado essi medesimi.

   Anche in Francia come in Italia, dove intanto erano stati costruiti conventi a Genova (1487), Roma (Trinità dei Monti sul Colle Pincio, nel 1494, oggi non più dell’Ordine), e successivamente verrà riaperto il convento di Castellammare di Stabia nel 1506, si fondarono non pochi conventi dell’Ordine in tutto il territorio sia durante che dopo la vita di Francesco sempre per volere delle locali cittadinanze locali e le concessioni delle autorità. Il primo convento francese dopo Plessiss Le Tours si realizzò ad Amboise, sullo stesso punto in cui Luigi XI aveva incontrato per la prima volta il frate eremita mentre veniva dalla Calabria; fu poi la volta di Frejus, poi del sontuoso convento di Parigi, la cui costruzione ebbe delle difficoltà iniziali per alcuni impedimenti che comunque si appianarono, Ad esso si aggiunsero gli altri conventi di Nostra Signora de Chasteliers (1493), di Chatelleraut (1495) e Bracancourt (1496) e di Abbeville (1499). Nel 1502 anche a Montgauger fu fondato un convento minimo e poco prima della morte dell’Eremita fu eretto anche il convento di Bomiers presso Bourges.

  La fama di santità di Francesco di Paola aveva raggiunto però i confini in altre parti dell’Europa, come ad esempio in Spagna, dove furono costruiti altri conventi.

  L’origine dell’Ordine in terra spagnola si deve all’evento della guerra fra il cattolico re Ferdinando V contro i Mori, che avendo occupato Granata avevano fatto irruzione nel territorio e avevano avuto ragione degli Spagnoli costringendoli quasi alla resa, una volta fallito il tentativo di Ferdinando di liberare la città di Malaga (anno 1487). Francesco, saputo di questo nuovo conflitto dall’ambasciatore spagnolo presente alla corte di Francia, aveva mandato a Malaga P. Bernardino da Propalati e il nuovo membro P. Lespervier ad esortare il monarca spagnolo a non darsi per vinto, ma a persistere nella lotta contro i Mussulmani, poiché questa sarebbe stata vinta e gli invasori sarebbero stati scacciati. Il che si verificò effettivamente dopo pochi giorni dall’arrivo dei due religiosi e il successo spagnolo legato anche all’esemplarità di vita che frattanto avevano dato i frati di Francesco fecero sì che il suo Ordine si stabilizzasse anche in quelle terre e che i religiosi Minimi fossero denominati i frati della vittoria. La sconfitta definitiva contro i Mori avverrà con la conquista di Granada nell’anno 1492, ma intanto i frutti della vittoria e l’avvento conseguente di Minimi in Spagna cominciarono a verificarsi e a prendere corpo già nello stesso anno 1487. Un primo oratorio che fu consentito di costruire in Spagna era stato quello di Nostra Signora della Vittoria in Malaga, a cui fecero seguito negli anni altri conventi. Una persona eminente a proposito  di queste fondazioni e dell’organizzazione della vita religiosa in Spagna sarà il P. Boyl, che passando dall’Ordine Benedettino ai Padri Minimi fu accolto da Francesco anche come Delegato Generale dell’Ordine in questa terra; la sua figura sarà legata alla partenza nel corso di quegli stessi anni con Cristoforo Colombo alla volta delle Americhe.

  Nell’ambito della necessità di rinnovamento della Chiesa che in età umanistica cominciava ad essere interessata dall’influsso di nuove dottrine devianti[45] e imponeva la presenza di nuovi movimenti religiosi che incoraggiassero la riforma, l’Ordine si radicò contemporaneamente anche in Germania e in Boemia. L’Ordine che ben presto verrà definito come quello dei Frati Minimi di San Francesco di Paola fu acclamato in quei confini ecclesiastici e applaudito come molto promettente per lo scopo di restaurazione e consolidamento della Chiesa, giacchè ormai l’altissimo livello di stima e di apprezzamento che gli eremiti avevano ottenuto alla corte del re di Francia aveva persuaso anche molti altri re e parecchie altre nazionalità. Nel 1491 inoltre, un altro Ordine eremitico sorto in Boemia già da diversi anni, nel voler optare per la radicalità evangelica della penitenza nella forma del digiuno, aveva deliberato la formazione di una Regola sua propria che perseguisse soprattutto tali finalità, la cui stesura era stata favorita dalla consultazione di una delle Regole di San Francesco di Paola già esistenti, la cui identità è ancora oggi da riscoprire. Questo avvenimento fu probabilmente uno degli sproni che favorirono ulteriormente l’ingresso dei Minimi in Boemia nello stesso anno 1491. L’espansione dell’Ordine di San Francesco di Paola in Europa fu molto rapida ed ebbe un notevole riscontro anche per l’appoggio dello stesso Francesco che inviava religiosi dalla Francia ad operare le varie fondazioni e tutte si realizzavano non senza che vi fosse lo spirito di umiltà e di santità nella vita vissuta degli eremiti medesimi.

 

 

 

 

1.6 Le vicende della Regola dell’Ordine

 

  Come già abbiamo avuto modo di illustrare, la congregazione eremitica di Francesco di Paola era stata riconosciuta ufficialmente in diocesi di Cosenza, poi approvata dal papa Sisto IV e aveva ottenuto anche l’approvazione regia di Ferrante d’Aragona. In Francia gli eremiti di Francesco avevano ottenuto approvazione e molteplici privilegi più volte confermati dal Carlo VIII e Luigi XII che consentirono la fondazione di moltissimi conventi. Non si era risolto tuttavia il problema sempre più urgente ma anche spinoso dell’approvazione ecclesiastica degli statuti dell’Ordine, poiché se pure vi era un orientamento generale quanto all’organizzazione interna ed esterna della comunità di Francesco non vi era ancora una Regola scritta ben definita che avesse ottenuto i favori dell’autorità ecclesiastica. Già nel 1483, quando ancora Francesco si trovava a Paterno Calabro aveva avanzato la richiesta al papa Sisto IV che fosse approvata una sua Regola scritta; al che il pontefice si mostrò ben disposto a condizione che l’Eremita avesse ottemperato all’ordine di partire alla volta della Francia per operare la guarigione di Luigi XI. Nel 1474 Francesco aveva steso già un manoscritto con non pochi elementi di descrizione della vita in comunità: non si può definire una vera e propria regola scritta in quanto mancano le caratteristiche dello statuto effettivo, ma si riscontrano alcuni orientamenti circa la conduzione della vita religiosa nei singoli conventi. Tale manoscritto prende il nome di Protoregola. [46] Ora, nel 1483, in seguito alla disponibilità affermata del papa Sisto, aiutato canonicamente dal P. Baldassare da Spigno, da P. Bernardino da Cropalati e dal P. Binet nonchè avvalendosi dell’appoggio di Luigi XI Francesco stendeva un primo documento che sperava diventasse ufficiale. Ma il papa morì di lì a poco e la cosa fu lasciata cadere. Il successore Innocenzo VIII, in una lettera indirizzata nel 1485 al re Carlo VIII che aveva mediato la richiesta di Francesco, comunicava che non poteva accogliere la richiesta di approvazione del Paolano in quanto la sua Regola era differente dagli schemi degli statuti già esistenti per altri Ordini religiosi: “…Conforme alla supplica che con le sue lettere ci ha rivolto la Maestà Vostra affinché ci degnassimo approvare e confermare la Regola, che ha stabilito il nostro diletto Figlio fr. Francesco di Paola:  Noi, che di buon grado aderiamo ai desideri della Maestà Vostra, in tutto ciò che possiamo secondo Dio: siamo contenti che lo stesso fr Francesco si sottoponga a quella delle Regole già approvate, che a lui meglio piaccia, come fece fr. Amedeo, e noi volentieri la confermeremo…”[47] Le quattro Regole già approvate sulle quali Francesco avrebbe dovuto trovare riferimento per la stesura della sua redazione erano quelle di San Basilio, San Benedetto, Sant’Agostino e San Francesco di Assisi: esse erano state già fissate come definitive dal Concilio Lateranense IV del 1215, che per evitare confusioni e dispersioni future aveva deliberato che in aggiunta ad esse non si stendessero più altre Regole. Sicchè Francesco dovette accogliere con umiltà di non poter ottenere ufficialmente una Regola propria che si distaccasse da tutte le altre secondo quelli che erano sempre stati i suoi desideri: egli intendeva dare alla sua congregazione religiosa una fisionomia del tutto peculiare soprattutto per il contenuto della vita quaresimale, che costituiva una novità rispetto agli statuti già esistenti.

  Il frate dovette attendere fino al 1492, quando al papa Innocenzo VIII subentrò Alessandro VI, che il 26 Febbraio 1493 si decise per l’approvazione della Regola della congregazione paolana secondo uno schema ben determinato che  Francesco aveva proposto alle sue attenzioni. La bolla di approvazione della Regola prende il nome di Meritis religiosae vitae nella quale si determina che la denominazione della congregazione eremitica, fino ad allora esposta a tante varianti secondo i luoghi e le situazioni che avevano incontrato i frati di Francesco in ogni parte d’Europa[48], doveva essere quella di Ordine dei Minimi poveri eremiti di Fra’ Francesco di Paola. La data del 1493 è importante quindi anche per il fatto che costituisce una svolta in relazione al nome definitivo della famiglia religiosa che ottiene finalmente una configurazione specifica nella Chiesa. La denominazione fu voluta dallo stesso Francesco che aveva sempre definito se stesso il poverello frate Francesco di Paola minimo delli minimi servi di Giesù Cristo benedetto con il quale esprimeva l’umiltà del tutto singolare che lo abbassava anche al di sotto dei Minori di Francesco d’Assisi e che aveva caratterizzato la sua vita e doveva costituire elemento indispensabile per i suoi religiosi.

  Nei capitoli di questa Regola, che non presenta la vita quaresimale come voto pur raccomandandola caldamente a tutti i religiosi, si notano non pochi riferimenti ai testi delle Regole suddette di San Francesco di Assisi e di san Benedetto e in parte anche delle costituzioni di San Pietro da Pisa cosicché si può concludere che aiutato dal Padre Baldassare da Spigno, Francesco aveva impostato una Regola sua propria che andasse incontro anche alle richieste ufficiali ecclesiastiche di adeguamento agli statuti già esistenti per altri Ordini, in ottemperanza al Concilio Lateranense IV. Si conciliava pertanto la volontà d Francesco di apportare nella Chiesa una sua propria impronta negli statuti dell'Ordine con la necessità del Lateranense IV di non recare fastidi e tensioni future quanto ad eventuali approvazioni di altre Regole religiose.

  La vicenda tuttavia non ebbe fine con questa approvazione di Alessandro VI. Forse con l’intento di specificare maggiormente il carisma penitenziale della quaresima, che a Francesco stava molto a cuore più di tutti gli altri elementi di spiritualità, il frate paolano tornò a presentare nel 1501 una seconda Regola al papa Alessandro VI, ottenendone l’approvazione il 1 Maggio dello stesso anno. L’ossatura di questa nuova regola era infatti l’elemento di penitenza posto come filo conduttore di tutta la spiritualità dell’Ordine e affinato alla preghiera e al digiuno, e ad avvalorare l’esaltazione di questo singolare aspetto di vita era il fatto che adesso la vita quaresimale si poneva come voto religioso affinato alla povertà, alla castità, e all’obbedienza. Un quarto voto caratteristico della specificità penitenziale, quale non lo si era mai visto nelle Regole antecedenti.

  Con la seconda Regola la configurazione dell’Ordine viene a perdere tuttavia l’aspetto eremitico delle origini per avviarsi verso la forma propria degli Ordini Mendicanti. Questo spiega anche la riduzione della denominazione stessa dell’Ordine a solo Ordine dei Minimi.

  Poiché tuttavia la nuova Regola approvata non aveva seguito l’itinerario della consultazione del collegio cardinalizio, il puntiglio di Francesco di Paola volle che essa fosse riconsiderata dal papa sotto questo aspetto nel 1502. Sicchè il 20 Maggio 1502 si ebbe una terza approvazione della Regola dal contenuto pressocchè identico a quello precedente.

  Una quarta redazione della Regola, questa definitiva, venne poi approvata da Giulio II il 28 Luglio del 1506. Vi è da dire che man mano che il frate paolano procedeva con la presentazione delle varie edizioni della Regola del suo Ordine, veniva da questi presentata anche una Regola per il secondo Ordine delle monache di clausura e per il Terz’Ordine laicale: stava infatti sorgendo in concomitanza con la famiglia dei frati anche un ramo femminile per volere di alcune donne che avevano fatto esplicita richiesta all’umile paolano di condividere in pienezza la sua spiritualità, e parimenti anche un ramo laicale di vita nel mondo secondo lo spirito minimo. Di questi due nuovi movimenti parleremo fra poco, intanto possiamo dire che i loro statuti vengono presentati al pontefice contemporaneamente alle varie redazioni della Regola indirizzata ai religiosi uomini, e non è illogico supporre che Francesco abbia approfittato di fare apportare a quest’ultima le varie modifiche suddette cogliendo appunto l’occasione della presentazione della Regola del Secondo e Terz’Ordine. Mentre veniva a approvata nel 1501 la seconda redazione della Regola dei frati che abbiamo menzionato veniva altresì riconosciuta la prima edizione di una Regola del Terz’Ordine; al presenziare della terza redazione del 1502 veniva approvata anche una seconda Regola per i Terziari; adesso nel 1506 accanto all’approvazione della Quarta Regola per il Primo Ordine si aveva anche l’approvazione della Terza Regola per i Terziari e contemporaneamente veniva presentata anche una redazione per le Monache del Secondo Ordine.

  L’ennesimo ricorso alla Santa Sede nel 1506 era indirizzato in effetti al solo ottenimento dell’approvazione della Regola delle Claustrali, che avvenne senza difficoltà, ma fu occasione per rivedere il testo della suddetta Regola per i frati uomini.

  Quest’ultima come già si è detto, venne approvata il 28 Luglio 1506[49], un anno prima del transito al Cielo dell’Eremita Paolano: probabilmente appunto perché vedeva avvicinarsi il momento della sua dipartita del mondo terremo, Francesco si preoccupava di stabilire il carattere della quaresima perpetua nei suoi statuti in modo tale che non si verificassero in futuro mitigazioni e manomissioni del testo su questo punto. La nuova Regola del 1506 è visibilmente incentrata sulla Quaresima perpetua alla quale viene dedicato l'intero Capitolo VI, che si esige come voto e che si esprime nella scelta di vita evangelica della triplice dimensione di digiuno, preghiera e carità; il papa Giulio II nell’approvazione di questa ultima stesura che sarà definitiva, definisce lo scopo della medesima come luce che illumina i penitenti, ben differente dalla redazione di Alessandro VI che invece attribuiva alla Regola la definizione di Luce che illumina le genti: nella Chiesa infatti i Minimi sono araldi non già della comune penitenza, bensì della maggiore penitenza, che deve orientare nella vita della comunità tutti coloro che intendano vivere la dimensione penitenziale e costituire insomma un orientamento per tutti i penitenti, anche per coloro che già la penitenza la vivono e la praticano. Questa fu la novità assoluta che distingueva l’Ordine dei Minimi dalle altre famiglie religiose già esistenti e che pur avendo una originalità sua propria non creò confusione nella Chiesa, avendo l’Ordine riconosciuto un ruolo particolare nel mondo ecclesiastico che era quello di orientamento per tutti i penitenti.

  Come già era avvenuto con la seconda e terza stesura, l’impostazione di vita dei frati cambiava radicalmente: da Ordine eremitico si era passati un po’ per volta ad assumere le caratteristiche monastiche fino ad abbracciare la dimensione conventuale tipica degli Ordini Mendicanti e di fatto tuttora l’Ordine viene definito come il quinto Istituto mendicante in aggiunta a quello dei Domenicani, dei Francescani, degli Agostiniani e dei Carmelitani. Accanto al testo della Regola gli statuti minimi contemplano oggi anche le cosiddette Costituzioni che non vogliono essere uin rinnegamento della Regola originaria, ma una sua immedesimazione nel contesto delle varie epoche correnti e un suo adattamento alle circostanze dell’oggi, giacchè è impossibile sottostare alla  Regola del 1506 in tempi odierni. L’ultima revisione delle Costituzioni, che definirono i nuovi statuti in armonia con le nuove esigenze della vita ecclesiale specialmente dopo il Concilio Vaticano II, avvenne a Roma nel 1986.[50]

   Si è discusso tantissimo anche di recente, spronati anche dal documento Perfecte Caritatis sulla vita religiosa, se l’Ordine, fino a qualche anno fa definito di vita mista (Contemplativa e attiva) sia da definirsi interamente contemplativo o interamente di vita attiva, essendo la vita mista non prevista nel nuovo documento suddetto e il problema non è stato ne è tuttora di facile realizzazione: oggi l’Ordine dei Minimi se da una parte assume connotati di apostolato e di vita attiva a servizio della comunità ecclesiale, dall’altra coltiva anche la dimensione di raccoglimento e di vita fraterna in comunità ragion per cui è difficile dargli una collocazione. Parecchi studi, convegni, incontri e riflessioni, hanno determinato attualmente che l’Ordine è di vita prevalentemente contemplativa poiché pur attribuendo importanza alla dimensione di apostolato in diversi settori della vita ecclesiale da la prevalenza alla contemplazione, questa interpretata come radice e fondamento di ogni apostolato e missione della chiesa.

  Nonostante i vari cambiamenti e le trasformazioni avvenute nel corso degli anni lo spirito della maggiore penitenza è rimasto comunque intatto e si vuole esprimere oggi oltre che nelle forme di astinenza, periodici digiuni e penitenze, anche e soprattutto nello stile di vita del Religioso Minimo che rispecchia la scelta del primato di Dio su ogni cosa e la fuga dalle vanità del mondo nella semplicità di vita, nella modestia nel parlare e nel vestire, la fuga dal multiloquio e dalle vanità del mondo e dalle ricercatezze. Il Minimo è il frate che rifugge gli arrivismi e le ambizioni che altri tendono a raggiungere anche all’interno della vita ecclesiale, che lavora con impegno e attenzione in qualunque dimensione sia stato collocato rifuggendo la vanagloria e il compromesso e l’autoesaltazione pur accettando senza aspettarsele le immancabili ricompense che tutto questo comporta secondo il monito evangelico: “Chi si umilia sarà esaltato.” Predilige la preghiera, il raccoglimento e la comunione con Dio, essendo su questo di orientamento per tutti i fratelli applicandosi al servizio umile e disinteressato.

  Indipendentemente dalle ascesi e dalle rinunce il Minimo vive quindi uno stile di vita che lo distingue da tutti gli altri nel proprio essere prima ancora che nell’agire in modo tale che ogni azione e ogni ministero siano espressive della spiritualità penitenziale e del primato di Dio e questo rende attuale il carisma stesso eremitico di San Francesco di Paola nella cultura di oggi indipendentemente da quali possano essere le dimensioni di apostolato e le varie circostanze di ministero. L’Ordine oggi infatti abbraccia vari campi di vita apostolica, dalla semplice vita conventuale alla parrocchia, fino alla missione non disdegnando qualsiasi forma di apostolato[51], tuttavia in ogni ruolo svolto non può non apportare nella persona dei religiosi e anche sotto attività specifiche di ministero la propria impronta di uomo di Dio che fugge dal mondo secondo i connotati suddetti.

 

 
 


 

 

Raccolto e ispirato, San Francesco di Paola redige la Regola dell'Ordine

 

 

 

 

1.     7 Il Secondo e Terz' Ordine dei Minimi

 

  Come già si è accennato, l'Ordine dei Minimi di San Francesco di Paola non si limita ai soli religiosi uomini fratelli e sacerdoti, ma è costituito anche da un Secondo Ordine formato da monache di clausura e da un Terzo Ordine laicale, entrambi voluti dallo stesso eremita paolano, anche se in circostanze e secondo occasioni differenti. Come si accennava in precedenza, nel 1506, accanto al testo definitivo della Regola del I Ordine (appunto il ramo maschile dei religiosi) veniva approvata anche una stesura inerente alle normative del II Ordine di monache claustrali.

  L'origine di questo ramo femminile della famiglia minima è ancora dibattuto, specialmente in relazione alla data del 1495 o al 1502, quest'ultima comunque la più probabile[52] Inizialmente il Santo Eremita avrebbe visto con molta perplessità la possibilità di affidare alla Santa Sede l'approvazione di una Seconda Regola per un ramo femminile dell'Ordine, soprattutto per le difficoltà che ne sarebbero conseguite: se vi erano già parecchi intoppi e impedimenti per l'approvazione di una Regola per i religiosi uomini, quanto più difficile sarebbe stata l'approvazione di uno statuto per Religiose donne; ciò nondimeno, le insistenze di alcune giovani spagnole che aspiravano ad immedesimarsi nello stile di vita del Paolano nonché l'entusiasmo e la gioia da esse manifestata per tale prospettiva, indussero Francesco ad accogliere la loro richiesta.

  Andando però con ordine cronologico nel racconto di questa istituzione, nella città spagnola di Andujar, dove già risiedevano i frati uomini dell'Ordine di Francesco di Paola, si distingueva un nobile signore dal nome Pedro De Lucena, che aveva già svolto un ruolo rilevante nell'introduzione dell'Ordine in Spagna essendo stato fra il 1483 e il 1487 ambasciatore in Francia del re di Spagna Ferdinando il Cattolico[53]; questi assieme alla figlia Elena donò al religioso minimo P. Giovanni Bosco una sua proprietà perchè divenisse monastero delle monache minime. Le prime claustrali accolte furono Maria de Lucena, figlia di Pedro, e la nipote Francesca. Nel 1495 Francesco, in attesa di approvare una Regola definitiva per queste claustrali che successivamente fonderanno altre case in Spagna e in Italia[54]  assegnò loro un assistente spirituale appartenente al I Ordine nella persona del P. Giovanni Abundance perchè vigilasse sulla formazione e sul progresso spirituale delle Religiose secondo la Regola in via di approvazione.

  Il testo della Regola del II Ordine è simile a quello indirizzato ai sacerdoti e fratelli, avendo come costitutivo di vita la maggiore penitenza palesata nel quarto voto di vita quaresimale associato alla povertà, alla castità e all'obbedienza, ma vi sono degli adattamenti specifici riguardo alla condizione   del sesso femminile e alla dimensione dell'esclusività della vita claustrale.

  Il Terzo Ordine dei Minimi non è fondamentalmente una novità nel campo degli Ordini Mendicanti se si pensa al famosissimo Terz' Ordine Francescano e a al Terz'Ordine dei Domenicani, già molto attivi all'epoca della fondazione minima; esso si configura come il Terzo Ramo della famiglia minima, costituito da battezzati laici che pur vivendo nel mondo e abbracciando la secolarità della vita in tutte le dimensioni si impegnano ad osservare uno stile di vita improntato sulla spiritualità penitenziale del Paolano sotto la normativa di una Regola specifica.

  Già durante i primi passi della vita eremitica del giovane Francesco l'anonimo riscontra la presenza di alcune persone di ambo i sessi che pur non consacrando direttamente la propria vita al servizio divino nello specifico dell'eremo alla pari dei confratelli del Paolano, prestano a lui obbedienza e rispetto, prodigandosi generosamente nella costruzione del convento e nell'elargizione di molti beni; a costoro, specialmente alle donne che aiutavano il frate paolano nelle mansioni di edificazione del convento, Francesco raccomanda la fedeltà al sacramento del Matrimonio e l'osservanza di altri moniti di spiritualità evangelica.[55]

  Ed è infatti questo lo stile di vita che il Paolano pretenderà successivamente dai membri del Terso Ordine: l'osservanza dei comandamenti divini, la carità e la preghiera nella specificità di particolari osservanze penitenziali di rinuncia e di digiuno. Uomini e donne dediti all'osservanza di uno stato di vita incentrato sulla spiritualità di Francesco di Paola nonostante la loro persistenza nel mondo e nella vita matrimoniale si distinsero anche in Francia ai tempi del periodo touronense della vita del Fondatore, che si riscontrano in parte anche organizzati giuridicamente[56] ma non si hanno dati storici esaurienti intorno alla nascita del terzo ramo della famiglia minima. Fatto sta che nel 1501 Francesco provvide a presentare per l'approvazione una prima Regola per il Terz'Ordine dei Minimi  che avrà le sue nuove relazioni nel 1502 e finalmente nel 1506 che sottolinea ancora una volta il primato dell'ascesi e della spiritualità penitenziale per uomini e donne che continuano a vivere nel secolo pur nutrendo un sommo amore per il Santo Paolano. Evidentemente l'eremita aveva ben considerato  la presenza continua e costante di persone che amavano seguire il Signore nella peculiarità della penitenza e della preghiera senza tuttavia compromettere la propria libertà personale attraverso una speciale consacrazione di vita religiosa e valutava un sistema di vita per questa gente così attenta e generosa e soprattutto interamente dedita alla spiritualità del paolano, risolvendo così che doveva rinvenirsi uno statuto di vita intermedio che disciplinasse anche questi laici pur mantenendo integra la loro disposizione alla vita sponsale. Francesco, che non deprezzava per niente il laicato e la scelta di vita secolare, si adoperò così per l'approvazione di uno statuto specifico per il Terz'Ordine laicale  dei Minimi, che tuttoggi persiste in tutte le realtà in cui è insediato il Primo Ordine e  non di rado anche in altre località in cui i religiosi uomini sono assenti.[57]

  I Terziari Minimi partecipano della spiritualità dei religiosi del Primo Ordine, condividendo la loro vita religiosa e collaborando anche dal punto di vista organizzativo della chiesa in cui essi dimorano    e dedicandosi non di rado alle varie attività della stessa parrocchia come l'organizzazione della carità e la partecipazione alla catechesi nelle parrocchie minime. I valori irrinunciabili della spiritualità del Terz' Ordine, che oltre che vissuti in prima persona vanno esternati nel mondo circostante in cui il singolo soggetto si trova a vivere e ad operare, riguardano in primo luogo il primato di Dio su ogni cosa e la fuga dalle vanità del mondo e dalle effimeratezze nello stile di vita semplice che fugge la ricercatezza, quindi la continua riconciliazione con Dio nella preghiera e nelle opere di carità e di solidarietà il tutto avvalorato dalle rinunce corporali del digiuno e dell'ascesi fisica prescritte dalla Regola secondo determinate normative disciplinari.[58]

  Senza per nulla svalutare l'importanza degli altri laici impegnati, i Terziari appunto per le affinità della loro vita spirituale sono i primi referenti di laicato nelle comunità ecclesiali dell'Ordine.

 

  1. 8 Il transito di Francesco alla casa del Padre

 

  Francesco di Paola dovette rinunciare al sogno di tornare alla sua terra nativa e rassegnarsi a proseguire la sua vita alla corte del re di Francia, realizzando l'organizzazione di moltissime case religiose del suo Ordine in parecchi punti d'Europa.

  Il 2 Aprile del 1507 poneva fine ai suoi giorni terreni, in seguito ad un crescendo di debilitazione fisica generale che lo costringeva sempre più alla passività impedendogli sempre più la disinvoltura nei movimenti. In verità, la robustissima fibra dell'uomo di Dio, nonostante i suoi 91 anni, gli permise di mostrare vigore e sollecitudine sotto tutti gli aspetti fino agli ultimi giorni, ma proprio a partire dal 28 Marzo 1507, l'indomani del suo 91 compleanno, il Paolano cominciò ad accusare i sintomi di debolezza fisica che lo condurranno alla morte: la febbre si impossessò di lui ostinatamente giocandogli brutti scherzi e rendendolo sempre più debole e impossibilitato a muoversi senza assistenza e un po' alla volta dovette ricorrere all'aiuto dei confratelli anche per i movimenti più semplici. Si era in quei giorni nei tempi liturgici della Passione del Signore e il teste P. Leonardo Barbier n. 38 al Processo di Tours racconta che il 1 Aprile era di Giovedi Santo. Francesco in mattinata convocò nella sua cella tutti i religiosi residenti a Tours per la celebrazione della riconciliazione comunitaria, pratica che è sempre stata in uso nell'Ordine e che in questi ultimi tempi è stata ripristinata nelle case religiose dei Minimi. Invitò nella circostanza tutti i frati ad essere sempre zelanti nell'osservanza della Regola specialmente nella vita quaresimale ed esortò dolcemente all'unità, alla carità fraterna e al perdono reciproco di eventuali colpe o mancanze. Ebbe luogo quindi l'abbraccio di pace fra tutti religiosi fra di loro e con il loro padre Fondatore, il quale abbracciò ciascuno di essi con amore e stima paterna singolari.

  Di conseguenza, celebrandosi in quella circostanza la liturgia solenne della commemorazione dell'istituzione del sacerdozio con la benedizione degli olii sacri, Francesco si fece accompagnare in chiesa dove partecipò all'intera funzione con fare raccolto e devoto. I frati lo convinsero poi a rientrare nella sua cella. Durante il pomeriggio partecipò con vivo interesse alla liturgia della “lavanda dei piedi” che si svolse nella stessa cella del Santo.

  Il mattino seguente, 2 Aprile 1507, Francesco ormai disteso immobile nel suo letto, convocò una seconda volta nella propria cella tutti i religiosi minimi di Tours per raccomandare vivamente la fedeltà a Dio nel rispetto dei comandamenti e della Regola approvata da Giulio II. Esortò paternamente tutti all'osservanza religiosa e alla carità vicendevole come pure alla fedeltà ai voti, e poiché di lì a poco si prevedeva la celebrazione del primo Capitolo Generale dell'Ordine che avrebbe nominato il primo Superiore Generale, nominò alla guida dell' Ordine il P. Bernardino da Cropalati fino alla celebrazione del Capitolo medesimo. Il P. Bernardino accettò l'incarico non senza tentennamenti e difficoltà visto che non si riteneva degno né all'altezza di un siffatto ruolo.

  Erano grossomodo le 10 del mattino quando l'umile frate paolano, dopo aver proferito alcune preghiere, esalò l'ultimo respiro amorevolmente assistito dai commossi confratelli che già stavano piangendo da un giorno per la prossima dipartita del loro padre Fondatore. Il suo transito avvenne nella pace e nella serenità e soprattutto nell'accettazione piena dei divini voleri. La notizia della morte di Francesco si diffuse rapidamente nel circondario e in tutte le zone di Tours e dintorni, sicchè una grossa turba di popolo accorse al convento facendo ressa attorno alla salma del Santo al punto che si dovette ricorrere alle forze di polizia per la tutela dell'ordine; parecchia gente ambiva soprattutto ottenere un pezzo della veste del frate defunto, o un piccolo legno della bara o comunque un qualsiasi oggettino che costituisse da reliquia di devozione. Anche di fronte al feretro di Francesco, che restò esposto per i tre giorni seguenti mentre si celebravano i riti della Pasqua di Resurrezione, non mancarono i miracoli di guarigioni e gli eventi prodigiosi: una bambina affetta da un tumore al volto guarì improvvisamente mentre baciava il feretro del Santo; una donna riottenne la guarigione in seguito alla caduta da un cavallo quando già la bara del cadavere di Francesco era chiusa. L'andirivieni della gente che si accalcava attorno alla salma dell'eremita era di notevole consistenza e tutti rendevano omaggio al buon uomo di Paola che aveva costituito un motivo di serenità per tutti con la sua sola presenza a Tours. Il Lunedi di Pasqua il re ordinò che il Santo, una volta ricevuti gli omaggi funebri, fosse seppellito in una fossa appositamente incavata nella cappella del convento locale di Tours. Alcuni giorni dopo però per volere di Luigia di Savoia la salma venne disotterrata per essere deposta in altro luogo più idoneo in muratura a mattoni poiché il luogo dove era stato deposto il feretro era piuttosto umido e con meraviglia, durante la esumazione del cadavere, ci si accorse che esso era ancora intatto e privo di esalazioni e di miasmi tanto che si potè ancora approfittare per un ritratto del volto del Santo.

  Il 1 Maggio 1519, terminato l'iter investigativo sulla vita e le virtù, Francesco di Paola fu canonizzato per la gloria degli altari, ponendosi la sua festa ufficialmente in data 2 Aprile.

  Nel 1562 il venerato corpo di San Francesco subì degli oltraggi incresciosi nel contesto delle guerre religiose fra cattolici e protestanti: la chiesa dei Frati Minimi di Tours fu presa di mira dagli Ugonotti in quanto i Minimi erano da sempre stati fra quegli Istituti Religiosi artefici dell'opera di predicazione contro il Calvinismo e altre idee riformate e accanto ai Gesuiti per primi avevano aspramente contestato la Riforma protestante. Gli Ugonotti il 13 Aprile del suddetto anno irruppero nel convento minimo di Plessis Le Tour uccidendo i frati che vi dimoravano e facendo razzia di ogni cosa; un testimone oculare afferma di aver visto che alcuni di essi profanarono la tomba del Santo Paolano, prelevandone il cadavere ancora quasi intatto e trascinandolo con una corda fino alle stanze della foresteria conventuale. Qui lo diedero alle fiamme riducendolo in cenere. Alcune persone fra le più pie e devote al Santo riuscirono a recuparare una parte delle ossa e dell'abito del cadavere, che saranno conservate e successivamente custodite ad opera della Curia di Tours che li ricondurrà presso l'antico convento. I Religiosi del posto, una volta bruciato il cadavere di San Francesco, ne recuperarono tutte le ceneri.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2

TRATTI  DELLA SPIRITUALITA' DEL PAOLANO

 

  La prima parte di questo lavoro, relativa alla vita di San Francesco di Paola, è ritenuta la più bella e la più interessante anche da parte di chi scrive, giacchè la descrizione dei fatti e della vita di un uomo di Dio quale è stato Francesco è molto più eloquente di tanti trattati teologici e di spiritualità.

  La vita di San Francesco di Paola infatti è sufficiente infatti per commentarsi da sola e per essere di edificazione al pubblico cristiano e non. Ciò nonostante non possiamo esimerci dall'intrattenerci sui contenuti spirituali che la stessa vita del paolano sprigiona e che sono di richiamo anche per l'attualità della vita della chiesa che ancora oggi coltiva una grande eredità nelle tappe della vita di San Francesco di Paola e nelle origini dell'Ordine dei Minimi.

  Per questo motivo non è fuori luogo realizzare degli accostamenti fra la spiritualità del Fondatore con le linee generali della teologia e della spiritualità di cui la Chiesa è depositaria.

 

 

2.1 Una scelta prettamente eremitica

 

  L’esperienza del deserto intrapresa dal Paolano rientra nella direzione di tutte quelle specificità di eremitaggio che si svilupparono nei periodi di poco posteriori al suo tempo e che rimontano a loro volta anche ai Padri del deserto. Proprio questo è l’accostamento che viene fatto molto spesso nell’analisi delle vita e della spiritualità di San Francesco di Paola: “Egli imposta uno stile di vita per sé e per i suoi compagni eremiti che ricalca le forme di una sequela evangelica veramente radicale: preghiera, povertà, distacco dal mondo, lavoro manuale, vita austera e sobria. Sono le forme della vita austera e ascetica della Chiesa, risalenti allo stile dei Padri del deserto. Non per nulla, in seguito, Alessandro VI, approvando la terza redazione della Regola dell’Ordine dei Minimi, dirà che Francesco non è da considerarsi come primo padre e fondatore, quanto invece come fedele imitatore degli antichi padri e come diligente seguace e innovatore degli antichi ordinamenti di vita.”[59] Questa comparazione fra lo stile di Francesco e quello dei Padri del deserto è universalmente condiviso da tutti coloro che si sono occupati della vita e della spiritualità del Paolano e del suo movimento; caratteri di vita eremitica dei primi padri si riscontrano nel desiderio di estrema solitudine, nella dedizione alla preghiera e dalla generale descrizione del modo di vivere austero e mortificato che Francesco osservava e di cui rendono testimonianza sia l’Anonimo che i vari testi dei Processi. Francesco non deriva l’impostazione della sua scelta dalla conoscenza diretta della vita e della spiritualità di alcuno di questi padri, ma ne ricalca le orme direttamente dal suo stesso vivere l’eremitismo del deserto: “Francesco, offrendosi modello, si richiamava all’eremitismo nella forma più classica, dove la contemplazione, le astinenze e il digiuno e ilo lavoro erano le coordinate di uno stile di vita praticato dalla Chiesa sin dal suo inizio. Non c’era alla base una conoscenza diretta dei testi dei Padri e neppure un modello recente di eremitismo greco – nei secoli passati diffuso in Calabria – ritengo che Francesco si sia unicamente rifatto agli eremiti incontrati durante il pellegrinaggio ad Assisi e poi alla sua attitudine alla vita solitaria congiunta alla preghiera.”[60] Si sottolinea pertanto che la deliberazione del deserto di Paola non è originaria, ma si rifa’ ad esperienze già vissute e infatti l’eremitismo non è un fenomeno originario neppure in Calabria e Francesco di Paola non ne è stato il primo ad averla intrapreso. Egli con la sua giovinezza nella grotta estenderà il comune sentire eremitico proprio in modo particolare del Medioevo e con esso apporterà un’impronta alla vita ecclesiale e al tessuto del mondo suo contemporaneo in un’epoca in cui predominano il disvalore, l’edonismo e l’apparire che prevarica sulla trasparenza. Tale è stata l’esperienza di parecchi altri illustri personaggi che sono tuttora noti per aver contribuito a rinnovare il mondo a partire da se stessi nell’emulazione della vita ritirata di Gesù nel deserdo, ragion per cui non sarà inutile stendere termini di paragone fra il Nostro e altri personaggi che vissero seguendo il suo stile e la sua linea.

 

2. 1. 1 Sulla scia di altri eremiti

 

 Per padri del deserto si intendono quei monaci eremiti che dopo la pace promossa da Costantino si ritirarono a menare vita solitaria nei deserti dell’Egitto, della Siria e della Palestina ricercando la pace interiore (hesychia) e procacciando il sistema per condurre una vita cristiana esemplare; la loro testimonianza fece sì che avessero parecchi discepoli al loro seguito e molto famosi sono divenuti nel tempo i loro detti definiti apoftegmi  di grande ispirazione umana e cristiana.[61] Fra i primi eremiti si distingue in oriente San Paolo di Tebe, che incontrò e presumibilmente avviò alla vita ascetica il famoso Sant’Antonio Abate, considerato ancora oggi come il padre dell’eremitismo cristiano la cui vita e impostazione spirituale ricalcano non poco le orme del nostro Francesco di Paola,[62] Egiziano di nascita e figlio di benestanti agricoltori, Antonio rimasto orfano abbandonò ogni cosa del mondo secolare distribuendo tutti i suoi beni ai poveri per ritirarsi nel deserto sulla scia degli altri anacoreti che menavano vita solitaria. Secondo la Vita Antonii del discepolo Sant’Atanasio visse per parecchi anni nella mortificazione corporale, nella preghiera e nella castità lottando molto spesso contro la propria concupiscenza e le seduzioni del maligno. Tentato più volte di abbandonare il proposito di speciale dedizione a Dio perché messo alla prova dalla ricorrente perplessità intorno alla validità della solitudine, decise di accrescere il rigore delle sue penitenze ritirandosi successivamente in una tomba scavata sulla roccia alle porte di Cuma, città egiziana sua natale, e attraverso ulteriori rinunce, fustigazioni, digiuni e attività di orazione e di lavoro[63] menava un’aspra lotta contro il demonio. Successivamente Antonio spostò la sua dimensione eremitica presso il Mar Rosso, in un luogo deserto dove visse per circa 20 anni sempre nel silenzio e nell’isolamento, finchè alcune persone che lo notarono furono attratti dal suo stile di vita anacoretica e si incoraggiarono ad abbracciarlo ponendosi alla sua sequela. Di conseguenza Antonio Abate fu l’istitutore di due comunità di eremiti che sotto la guida di un padre spirituale (Abbà da cui il termine abate) conducevano vita eremitica affinando così il cenobio con il deserto.[64]

  Sant’Antonio fu però soltanto una delle figure eminenti del monachesimo orientale che trovava la ragione della sua esistenza nella solitudine che Gesù ricercava nel deserto per entrare in comunione con il Padre nella preghiera: anche Basilio visse un’esperienza analoga di solitudine e di privazione che lo condusse a fondare la regola per un Ordine monastico e successivamente passò all’apostolato ricevendo l’ordine sacro del presbiterato sotto il quale combatterà l’eresia ariana; analoga è anche la storia di San Gregorio Nazianzeno e di molti altri padri del deserto la cui vita si associa a quella del nostro Fondatore per parecchi aspetti che essi hanno in comune, e cioè: 1) la ricerca primaria di un orientamento vocazionale, 2) la guida spirituale attinta da altri monaci eremiti loro contemporanei 3) la vita ritirata che essi condussero nel deserto nella preghiera e nella mortificazione corporale; 4) il passaggio dall’eremitismo stretto alla comunione cenobitica, 5) il successivo impegno nell’apostolato, ciascuno secondo modalità e contesti differenti. Soffermarci sulla vita di Sant’Antonio ci è stato utile infatti per cogliere le linee portanti della spiritualità di San Francesco di Paola quale riproposta eremitica originaria nella Calabria del 1400 e considerare come la volontà costante del primato di Dio nella sua vita sia stata la caratteristica prettamente monastica che rievoca l’antico monachesimo delle origini. Come nel caso dei monaci suddetti e di altri ancora, il fascino della vita anacoretica in Francesco di Paola è sorto senza alcuna forma di condizionamento o di coazione esterna, ma è stato la risultante di una sensibilità personale che aveva pervaso già da tantissimo tempo l’animo di questo giovane paolano che nelle fasi successive della sua vita, raggiungendo la dimensione dell’apostolato e della vita comune, insisterà moltissimo sul valore della supremazia del divino esperito da egli medesimo nella grotta.

  Dicevamo tuttavia che lo stile di vita desertico del Paolano non costituiva una novità neppure nell’Italia del suo tempo. L’eremitismo manifestatosi in Occidente nel X[65] secolo e protrattosi per i periodi successivi fu infatti un fenomeno avente ripercussioni anche nella civiltà occidentale e costituisce una delle caratteristiche della spiritualità del Medioevo soprattutto negli Ordini Mendicanti[66] conoscendo in tutte la varie sfaccettature il medesimo passaggio dalla solitudine del singolo alla comunità eremitica del cenobio. Le prerogative dei singoli eremiti variano da soggetto a soggetto, per cui non si può dare un’idea unilaterale della vita eremitica nei secoli immediatamente dopo l’anno 1000, ma si possono riscontrare delle caratteristiche comuni a tutte le esperienze di proposta ascetica e solitaria[67]: a differenza che nelle situazioni precedenti tale periodo, avviene che l’eremita dei secoli XI, XII e XIII è quasi sempre un laico che intraprende la sua scelta animato da motivazioni e sentimenti personali e pertanto non è vincolato all’obbedienza ad un abate o da un cenobio; questi è sempre ala ricerca dei luoghi solitari che siano distanti dal consorzio mondano per realizzare la dedica esclusiva di se stessi a Dio e per vivere l’intimità con Lui concepito come bene supremo e superiore a tutte le cose, nei quali coltivare la preghiera, il raccoglimento e la solitudine.      L’isolamento non corrisponde nelle sue intenzioni alla misantropia e al disprezzo della creaturalità e della contingenza poiché chi sceglie la vita eremitica non vuole deprezzare o ricusare il sistema che lo circonda; vuole semplicemente donare se stesso al divino, elevare il proprio animo alla trascendenza considerandone l’importanza al di sopra della storia e della contemporaneità per trovare in Dio anche il senso stesso delle cose che lo circondano. Per questo motivo si delibera per i siti distanti dalla civiltà e che tuttavia non sempre allontanano del tutto il soggetto dal contatto umano: i deserti infatti, seppure lontani e inaccessibili, sono di per sé sempre raggiunti dai pellegrini di passaggio e dai passanti che non di rado sono incuriositi dalla condotta e dallo stile di vita del penitente e non di rado lo avvicinano per instaurare un certo rapporto, sia pure sommario, con lui; i passanti diffondono a tutti la voce dell’esistenza di codesto eremita sperduto e isolato dal mondo, sicchè un po’ per volta quest’ultimo diventa meta di pellegrinaggio, specialmente poi quando si hanno notizie intorno a presunti miracoli, visioni, apparizioni o altri fenomeni a cui egli è soggetto. Ne deriva che la vita dell’eremita deve assumere inevitabilmente la componente dell’incontro con la gente. L’eremitismo conosce quasi sempre le attività successive dell’apostolato, incentrate sui temi del rigore eremitico stesso, della penitenza e della povertà.

  Altra caratteristica dell’eremitaggio può essere individuata nella povertà assoluta e nella rinuncia alle sicurezze materiali che si avevano nel mondo quale risposta allo stato di dissolutezza e di lassismo che aveva coinvolto le istituzioni ecclesiastiche soprattutto posteriormente all’anno 1000; come pure nella lotta contro il maligno, quest’ultima comune a tutte le esperienze di vita eremitica giacchè la vita ritirata era interessata fortemente dalle insinuazioni demoniache; e ancora una costante generica di tutti coloro che menano vita solitaria è la mortificazione corporale, ora attraverso digiuni prolungati, ora nella fustigazione, ora nella sottomissione concreta dei sensi affinché lo spirito si elevi al di sopra della materia.

  Per citare qualche esempio di vita eremitica occidentale che ebbe i suoi risvolti nella spiritualità religiosa e monastica dal Medio Evo in poi, osserviamo come nella seconda metà del XIV secolo già parecchi nuclei di eremiti avevano occupato le zone di quello che un giorno diventerà il famoso Santuario della Madonna di Montenero, nei pressi di Livorno, dove si dedicarono per parecchi anni alla vita solitaria nelle grotte del posto, dedicandosi alla preghiera, all’intimità con Dio e alle opere di mortificazione e di penitenza, dormendo nei pagliericci nelle grotte e cibandosi di erbe, radici e frutti selvatici della boscaglia. Coltivavano la devozione a Maria servendosi di un’icona della Vergine che avevano portato con sé dipinta su una tavola di legno, la cui devozione darà vita all’attuale famoso Santuario della Toscana.[68] Fra il 1360 e il 1364 un ricco mercante e uomo di affari, Giovanni Colombini, abbandonò ogni suo avere per dedicarsi alla povertà e alla ristrettezza assoluta secondo il monito evangelico della sequela di Cristo: vestendo solo di stracci, scalzo, e con una corona di ulivo sul capo, percorreva città e villaggi gridando ad alta voce “Oh, Gesù, Oh Gesù”. Da questa espressione si ebbe in breve tempo la fondazione dei Gesuati o Poverelli di Cristo. Essi erano i seguaci del Colombini che, rifiutando ogni dottrina e grado di cultura preferivano restare analfabeti e senza fissa dimora; inizialmente non ebbero alcun interesse per la vita sacramentale e consideravano il sacerdozio come un ostacolo alla povertà evangelica. Si proponevano di seguire le orme di Cristo senza disporre tuttavia di una mediazione ecclesiale e sacramentale. Papa Urbano V li approvò nel 1367 non prima di avere loro chiesto la revisione in più parti del loro stato di vita e della loro condotta. Il movimento, che comincerà a dedicarsi alla carità attraverso l’assistenza agli ammalati e ai carcerati, subirà parecchie trasformazioni e cambierà più volte denominazione sotto diversi pontefici fino al 1511.

  Quasi contemporaneamente, a Pisa un cittadino di nome Pietro Gambacorta intraprese un’esperienza analoga a quella del nostro Paolano: abbandonata la famiglia e ogni suo possedimento materiale visitò diverse istituzioni eremitiche come la Verna, Camaldoli e Vallombrosa senza essere tuttavia affascinato in modo particolare da alcuna di esse; si ritirò poi nel 1380  a vita solitaria nei pressi di Urbino (Monte Cessana) dove fondò una famiglia eremitica denominata Eremiti di Fra’ Pietro di Pisa che si imporrà sempre più nel territorio ecclesiale del luogo ad opera del discepolo Fra’ Angelo di Corsica.

  Nel XIV e XV secolo l’eremitismo in Occidente acquista molta importanza ed è al centro della novità della vita ecclesiale se è vero che di esso si da’ molta testimonianza nella presenza di non poche comunità di eremiti come a Camaldoli e a Fonte Avellana[69] e sono numerosi gli uomini dediti alla penitenza che con la loro vita solitaria tendono ad apportare il loro silente contributo alla riforma della Chiesa nel tentativo di ridimensionare le vecchie osservanze laddove queste venivano svilite e mitigate e i monti della Calabria non fanno eccezione: sparpagliati fra le riserve naturali e le alture boschive di questa regione, vivono diversi uomini dediti all’esclusiva dedizione a Dio, ora organizzati in piccoli gruppi ora riturati in estrema solitudine nei rifugi che loro stessi si scavavano nella roccia o nelle laure costituite per lo più da capanne; la loro vita si dispiega nella contemplazione, nella preghiera e nell’attività di accoglienza delle persone che molto spesso ad essi accorrono a volte anche esercitando la funzione di medici e guaritori e tutto questo risponde ad una necessità interiore provata da alcuni uomini di spiccata sensibilità che il mondo possa abbandonare le sue scelte di perversione e di miseria morale.[70]

    La panoramica appena percorsa ci aiuta a comprendere come il fenomeno della vita eremitica era già diffuso ai tempi del nostro Santo e mostravo connotati del tutto simili a quelli che gli agiografi tratteggiano nell’esporre l’esperienza di solitudine e di raccoglimento del Paolano, che contribuirà con la sua affezione per il divino a riportare nella prassi un contributo non indifferente al rifiorire della spiritualità dei Padri del deserto, la quale sarà elemento costitutivo del carisma di fondazione dell’Ordine dei Minimi, le cui costituzioni tuttora non mancano di ravvisare questo aspetto. Il silenzio, la vita ascetica, la mortificazione corporale attraverso la pratica dei digiuni e il passaggio progressivo dall’ambito dell’eremo a quello della vita apostolica e dei contatti con la società collocano in questa dimensione la figura e la spiritualità del nostro Santo Paolano. Come vedremo successivamente, questi, sebbene fosse stato un eremita, non trovò alcun impedimento né difficoltà a comunicare con l’ambiente circostante e ad interagire con il popolo apportando la propria impronta di predilezione di Dio che traspariva anche nelle singole azioni e nel portamento personale.

   

2.2 Contestatore del suo tempo

 

La scelta della grotta in Francesco costituisce una risposta alle prerogative del mondo, della sua concupiscenza e della sua corruzione, quale egli stesso l’aveva esperita durante la sosta a Roma nell’itinerario verso  Assisi e quale si mostrava nello scenario generale del mondo a lui contemporaneo. Per entrare nella dimensione del vissuto in cui il Santo calabrese si trovò a fomentare la propria vocazione di uomo dedito alla contemplazione, osserviamo come lo stato sociale e collettivo del suo tempo non era fra i più floridi della storia: la stessa classe clericale della Calabra del XV secolo, reduce dallo scisma d’Occidente che confondeva il popolo cristiano con la contrapposizione fra un papa e una antipapa, conseguito immediatamente alla cattività avignonese chiusasi nel 1377, era in preda ad una gravissima decadenza morale che colpiva tutte le istituzioni ecclesiastiche dagli Istituti monastici tradizionali che avevano perduto la loro originaria esemplarità precipitando nella dissolutezza, nella lussuria e nel lassismo dilagante, alle singole diocesi calabresi, che in molti contesti conoscevano situazioni di gravissimo scandalo e di generale disgregazione che si verificava nelle sedi vescovili e nelle parrocchie locali. Si direbbe che i misfatti più ricorrenti nella vita ecclesiale calabra si siano identificati nei fenomeni di simonia e di concubinato.[71] La crisi religiosa della Calabria riguardava anche i monasteri e gli Istituti di vita contemplativa, soprattutto per la fine del predominio del riguarda mondo monastico greco, sorto nell’Italia meridionale verso la fine del XIV secolo ma ora in preda all’assorbimento della religiosità latina.[72] Ad alleviare lo stato di decadenza dei monasteri di vita contemplativa si adoperò in modo determinante la figura pauperistica degli Ordini Francescani, che nella loro prassi di vita e nella predicazione rivendicavano la necessità della vecchia osservanza sullo stile della povertà evangelica, diventando poco per volta punto di riferimento per la maggioranza dei fedeli e realizzando la costruzione di nuovi edifici conventuali in diverse parti della regione. La religiosità e il senso del sacro nell’età del XV secolo sono relegate solo al popolino, che mantiene soprattutto nelle classi rurali un pio e persistente sentire religioso, che comunque è assente presso le classi e i ceti elevati e in generale la testimonianza del Vangelo risulta essere un generale atto di eroismo. Come scrive qualche studioso dell’epoca “Nel XV secolo il numero dei Santi sfiora quasi il centinaio e la loro eroicità è elevatissima, basti ricordare S. Vincenzo Ferreri, S. Bernardino da Siena, S. Giovanni da Capistrano. Tuttavia il loro esempio e il loro stimolo non sono sufficienti a risvegliare il vero spirito religioso e a convertire quella tendenza culturale della negligenza sistematica della morale, che è ormai avulsa dalla pratica di vita. L’osservanza di precetti religiosi si riduce a puro atto esteriore, anche nelle confraternite a carattere religioso che in quel secolo erano molto diffuse e numerose.

  Le lotte contro ogni forma di autorità, concepita ormai come oppressione, la sete di accrescere il proprio prestigio e l’individualismo pervadono tutti i livelli della vita civile.

I principati non sopportano più un’autorità superiore e muovono contro l’Impero. Le città, i comuni, i feudi baronali vogliono liberarsi da ogni giogo e praticano la più efferata ferocia per raggiungere lo scopo. Chi ha mezzi maggiori prevarica il vicino per appropriarsi del suo ed accrescere il prestigio ed il potere personale.”[73]

  Proprio mentre si svolge l’infanzia e l’adolescenza di Francesco e il suo ritiro nella grotta, nel Regno di Napoli è subentrata al re Ladislao, morto nel 1414, Giovanna II, definita “Giovanna la pazza” per la dissolutezza della sua vita privata  ed incapace di gestire le sorti del regno e che aveva   concesso la successione del trono partenopeo a Luigi D’Angiò che aveva mosso l’assedio a Napoli proprio con la finalità di appropriarsi del trono. Caccerà gli Aragonesi e sposterà la sua sede in Calabria. Alla sua morte nel 1434 e a quella di Giovanna nel 1435, il regno è conteso fra Alfonso d’Aragona e Renato d’Angiò, fratello di Luigi; dopo una sanguinosa battaglia fra i due eserciti, Alfonso riconquista il trono, ma inizierà una politica vessatoria di tributi finalizzate al semplice sfarzo della sua reggia, favorendo comunque le classi nobili. Il suo successore Ferdinando I non sarà migliore, ma provocherà il malcontento e la disperazione del popolo che avvertirà il peso della crudeltà e dell’oppressione fiscale; il popolo per liberarsi del suo predominio cerca di richiamare gli Angioini alla riconquista del trono di Napoli, ma Ferdinando replica con un’altra insurrezione sanguinosa che condurrà la regione alla miseria più nera e incrementerà le tassazioni dei ceti più umili e poveri che cadranno in pietose condizioni di miseria. E’ soprattutto la Calabria, territorio rurale e prevalentemente montagnoso dalle popolazioni disperse e in preda agli assalti dei pirati sulla costa, a risentire di tanta nefandezza e miseria morale che caratterizza la prevaricazione dei re gli uni sugli altri costituendo un peso non indifferente ai danni dei cittadini.

  Quanto al valore della grotta in Francesco di Paola in relazione alla crisi e al decadimento globale della sua contemporaneità, occorre affermare che la sua reazione giovanile di isolamento è stata costitutiva di una fuga dal mondo non già come tentativo di alienazione o di autodifesa da possibili pericoli imminenti, ma come una presa di distanza dai mali e dalle miserie del periodo che lo stava interessando ai quali occorreva controbattere principalmente attraverso un radicale rinnovamento della propria persona: Francesco in definitiva sceglie la grotta per opporre allo stato di decadenza del suo secolo un rinnovato stile di vita che potesse essere di richiamo per tutti gli uomini e che potesse essere allo stesso tempo fonte di motivazione per se stesso in vista del mondo: lo stile evangelico e penitente della superiorità dello spirito sulla materia e della riscoperta di Dio al di sopra di ogni cosa. Preferire Dio al mondo per muoversi secundum Deum sono le prerogative di risposta alla proposta di una società malata e dispersa.  Come afferma P. Castiglione nella sua Vita illustrata[74], San Francesco nella grotta si fa contestatore del suo tempo mostrando il suo disappunto nei confronti dei mali della sua dimensione epocale e soprattutto ricercando nella mutazione di se stesso attraverso la totale adesione e predilezione di Dio il criterio primario di trasformazione della società. Francesco opera una riforma nella Chiesa a partire da se stesso e dalla sua presa di distanza dalle posizioni imperanti di accomodamento alla cultura e alla mentalità corrente che non lasciava più spazio alla ricca eredità evangelica. Tutti i critici che si interessano della storia e della sua vita sono concordi nel riscontrare che in questo “buon uomo” semplice, mansueto, umile  e penitente sia nella Calabria montana e contadina sia nella facoltosa Francia regale si ritrovavano le aspettative di rinnovamento della cultura e della società che partono dalla vita interiore di un uomo che sempre e in ogni caso prediligerà ‘isolamento eloquente del primato di Dio come alternativa alle proposte demoralizzanti della mondanità, ai fini di mostrare che il mondo si fonda solamente nell’appartenenza a Dio.

   La risposta di Francesco ai problemi del male dilagante e della generale perversione che imperava anche in ambito ecclesiastico non era quindi la fuga vile dal mondo come illusione di un mero rifugio passivo in un antro selvaggio e solitario, quanto piuttosto la necessità di ripristinare la propria persona in vista dell’edificazione del suo ambiente antistante giacchè non è possibile qualsiasi mutazione del mondo se non a partire dalla propria persona e dalla propria impostazione di vita e questo in fondo rientrava anche fra le caratteristiche di rinuncia della mondanità e di ricerca della stabilità monastica che sembrano essere state le tematiche letterarie dominanti dell’epoca.[75]

 

2.3  Uno stile di vita del tutto singolare

 

. Il contributo che la famiglia eremitica di Francesco potette offrire alla riforma della Chiesa non poteva essere rilevante dal punto di vista dell’erudizione e del sapere, giacchè noi abbiamo a che fare con un Fondatore che comunemente viene definito un illetteratus povero di scienza e di conoscenza intellettuale[76], essendo piuttosto scaturente la sua formazione in senso prettamente agricolo e montano, ma occorre considerare che un determinato stile di vita e di personalità virtuosa ed esemplare coltivato da parte di un illetterato carente di formazione culturale e intellettuale ha la sua notevole incidenza in una società quasi del tutto priva di dottrina e di scienza quale certamente doveva essere quella della Calabria del XV secolo; ed è infatti la vita e la testimonianza del Santo  il costitutivo che attrae la gente semplice e incolta piuttosto che le ampollose erudizioni o i sottili ragionamenti e l’esercizio delle virtù colpisce nel segno molto più che la preparazione teologica.     Ragion per cui nello stile personale di vita di Francesco e nella su autodisciplina possiamo rinvenire una tipologia umana che certamente ha avuto il suo riscontro nella società del momento. Del resto la personalità umana e cristiana di Francesco non ha mai usato distanza né riluttanza nei confronti della religiosità popolare dei suoi ambiti di crescita e di formazione umana, ma ha sempre condiviso la semplicità e la pietà dei suoi contemporanei non disdegnando elementi di devozione che caratterizzavano il suo ambiente.[77]

   Morosini tratteggia il penitente paolano come un uomo umile, sottomesso, disponibile al servizio e al sacrificio, nonché dedito all’accoglienza e all’ospitalità, attento ai bisogni e alle necessità di chi accorreva a lui, ma in tutto questo capace di trattare i suoi interlocutori con spontaneità e immediatezza, mostrando capacità di relazioni alla pari secondo i costumi del popolo contadino da cui proveniva e a cui apparteneva. Manifestava molta naturalezza e spontaneità nelle interazioni sociali e coltivava i rapporti di amicizia e i contatti umani anche attraverso la prontezza al dialogo e allo scherzo intrattenendosi senza difficoltà con la gente di tutte le provenienze e di tutti i ceti sociali. Personalmente ritengo che tale affabilità con le persone e siffatta capacità di relazione non dovevano essere comunque tali da incentivare la vanità delle parole che lui stesso rivelerà costituire un serio pericolo soprattutto nelle Regole della sua congregazione, e che la capacità di comunicazione di questo bravissimo Paolano, se pure non lo poneva in difficoltà di alcun tipo di fronte alle persone e agli individui di alcun genere, non doveva essere del tutto emulativa delle caratteristiche comuni del popolo. Se così fosse si smentirebbe almeno parzialmente che Francesco sia stato anche uomo del “silenzio”, questo inteso come fuga dalle vanità della persona anche a proposito del tratto e della comunicazione, come pure che Francesco abbia mostrato docilità e affabilità nella dolcezza delle parole e degli argomenti, che, a detta degli agiografi più autorevoli, non escludevano mai Dio dalle sue argomentazioni. Secondo l’Anonimo chiunque lo avvicinasse per ottenere qualche consiglio o qualche esortazione o incoraggiamento se ne ritornava consolato.

  Tutto questo in sintesi lascia supporre che se pure il Paolano non provasse difficoltà a coltivare rapporti di amicizia e seppure il suo modo di essere era quello comune alla popolazione del luogo, e sebbene fosse stato un rusticus ed illetteratus il suo tratto con le persone non poteva eguagliare quello della massa e di certo si allontanava dal multiloquio e dalle banalità che di solito si coltivano in ogni contesto sociale, specialmente fra contadini.

   Tale capacità di socializzazione ad ogni buon conto  non gli impediva di coltivare in pienezza la sua passione radicata per il Signore, in modo tale che l’essere solitario, eremita e penitente non lo ostacolava dall’apportare il suo contributo al progresso della società.[78]

  A detta dell’Anonimo, Francesco nei confronti dei confratelli del suo Ordine si mostrava molto spesso disposto a servire e a ricevere ordini piuttosto che esercitare la sua indiscussa e legittima autorità, eppure sapeva mostrarsi determinato nel redarguire i frati colpevoli, mostrando anche severità e decisione nel correggere e nel riprendere; allo stesso tempo era tuttavia benevolo e paterno con i soggetti miti, con i timidi e i ben disposti. “ Con i suoi religiosi era terribile in volto come un leone e terribile nelle parole con le sue minacce. Affettuosamente paterno invece, e del tutto benigno era con gli umili e i pentiti. E si mostrava terribile per conservare nel timore quelli che non eran venuti meno al loro dovere.”[79] Ponderava così la bontà e la misericordia con la giustizia e la correttezza, valutando caso per caso sulla necessità degli interventi punitivi e sulla consistenza delle eventuali pene da irrogare ai religiosi inadempienti; l’atteggiamento di severità apparente da rivolgersi anche verso coloro che non erano venuti meno era evidentemente finalizzato a che la buona condotta nei giusti restasse inalterata, considerando anche il rischio che l’eccessiva indulgenza e la bonarietà potevano indurre gli obbedienti alla vanità del falso orgoglio, al punto che abbandonano ogni zelo nella perseveranza nel bene. Tale ponderatezza nell’agire viene riscontrata anche dal Padre Barbier alla corte di Francia: “Nel suo operare era umile e benigno. Nel riprendere qualcuno a volte era austero. Tuttavia, con quei frati che commettevano qualche mancanza, agiva in modo mitissimo. Si diceva che in convento aveva dovuto soffrire molto a causa di alcuni suoi frati che gli avevano chiesto di praticare una vita religiosa più mitigata.”[80] Sempre secondo il P. Barbier era anche uomo di pacificazione e di dialogo fra le parti in conflitto sia nella propria casa conventuale che presso le famiglie e si prodigava sempre per il bene e per la concordia reciproca.

  Secondo il biografo suo contemporaneo, Francesco era molto restio nei confronti dell’altro sesso, poiché affermava che “le donne e il denaro spingono alla concupiscenza e infiammano i servi di Dio…”[81], il che in effetti non può che suscitare stupore in un uomo dotato di buonsenso e di connaturale inclinazione a valutare ogni cosa secondo equilibrio e giusta misura, che pertanto non avrebbe avuto nulla da biasimare al sesso femminile in se stesso; stando però alle testimonianze ai  processi di canonizzazione i suoi rapporti con le donne, se pure anche da parte di non pochi testi si sia notato un affermato distacco da parte di Francesco dal sesso femminile, la sua discrezione non avrebbe tuttavia raggiunto livelli di riluttanza o misoginia, ragion per cui determinati atteggiamenti e certe affermazioni potrebbero interpretarsi semplicemente come provvedimenti cautelativi: senza nulla togliere alla nobiltà del sesso femminile in se stesso, Francesco probabilmente adoperava atteggiamenti di prudenza e di attenzione, considerando che eccessive familiarità con donne potevano di fatto distoglierlo dai buoni proposito di vita di speciale consacrazione. Oltretutto la discrezione dei rapporti con il sesso femminile come pure la moderazione del contatto con il denaro e con i beni materiali è componente essenziale della spiritualità eremitica dei padri del deserto, che considerano perniciosi allo spirito e alla perfezione determinati eccessi nelle relazioni intersoggettive.[82] Inoltre, che Francesco abbia avuto anche delle persone dell’altro sesso fra coloro che interagivano con lui e che gli si presentavano nelle loro necessità materiali e spirituali e che egli le abbia sempre accolte con molta generosità e abnegazione, smentisce in tutti i casi che egli abbia coltivato un concetto anatematizzante della femminilità.

  L’amore per la preghiera spontanea e disinvolta si esternava sotto i vari aspetti e ricalcava abitudini locali, ma la predilezione che maggiormente Francesco mostrava di avere era indirizzata in primo luogo allo specifico della contemplazione e della meditazione che svolgeva quasi sempre nella solitudine e nella vita ritirata, nonostante fossero frequenti le condivisioni di orazione in compagnia dei confratelli. Sulla preghiera di Francesco torneremo nei dettagli in seguito, ma ci basti per ora sottolineare che questa costituiva di certo il litemotiv di ogni sua attività e impregnava per intero la sua vita.

  Il rigore della disciplina corporale si era reso già evidente ancor prima che Francesco intraprendesse la vita eremitica all’interno della grotta, ma dall’esperienza di vita solitaria aveva tratto anche capacità di autodisciplina corporale che persisteranno per tutto il resto della sua vita per rafforzare e alimentare il fervore dell’appartenenza al divino affinché questo traspaia in ogni aspetto della sua vita: l’Anonimo infatti è molto categorico quando tratteggia la severità con cui Francesco sottometteva le proprie membra alle privazioni e alle mortificazioni: “ Di giorno lavorava per più di sei persone, digiunava ogni giorno, e mangiava, verso il tramonto, molto poco, quanto per sostenersi. Camminava a piedi nudi e non beveva vino. Dormiva molto poco per attendere all’orazione. Il suo letto era una ruvida tavola di legno alquanto inclinata; dormiva molto spesso in piedi o seduto o coricato. Non mangiava pesce e prendeva, molto tardi, soltanto un po’ di minestra di legumi, mentre ai suoi religiosi consentiva di mangiare qualsiasi cibo di magro. Non si tagliò mai la barba e neppure i capelli. La sua biancheria, personale più intima era il cilizio. Durante la Quaresima, nelle Vigilie e durante l’Avvento, in gran parte, osservava il digiuno a pane e acqua.”[83]

   Verso i problemi della sua epoca Francesco si mostrava sempre partecipe e attento, specialmente per quanto riguarda il tema della pace e della concordia sia a livello universale che nell’immediato contesto di una semplice lite fra contadini: usava riprovazione nei confronti di coloro che tendevano a tagliare i panni addosso,ossia a ingenerare malelingue, ingiurie e pettegolezzi, astenendosi lui stesso dal parlare male degli altri e lodando in tutti le qualità in positivo.

  Episodi della sua vita alla corte del Re di Napoli, di Luigi XI Re di Francia, e altri atteggiamenti di riprovazione che Francesco esternò sempre nei confronti dei potenti e degli altolocati del suo tempo che vessavano con oneri e gabelli le classi povere del ceto sociale, mostrano che anche il tema della giustizia e dell’equità come pure quello dell’urgenza nell’aiuto dei bisognosi, siano stati a cuore del nostro Paolano e che egli si mostrasse tutt’altro che neutrale alle ansie e alle vicissitudini del suo tempo, ragion per cui è da concludersi che il suo apporto per il miglioramento dell’ambiente e della società è stato più che determinante. Questo lo si riscontra nell’ambito della vita pubblica e delle relazioni intersoggettive che il Santo si trovò a coltivare nella dimensione della vita attiva.

  Occorre sottolineare tuttavia che il comune denominatore dei meriti e delle caratteristiche in positivo di quest’uomo scaturiscono dalla primaria esperienza di formazione giovanile, ossia dalla dimensione del deserto della grotta, che inizialmente egli intraprese nelle intenzioni di una scelta definitiva e irreversibile che avrebbe escluso ogni contatto diretto con il mondo esterno, ma che di fatto fu l’inizio e il fondamento della sua missione in mezzo alla gente: ogni sua azione, ministero e apostolato specifico come pure il tratto con le persone e con i suoi religiosi e le intuizioni che il nostro Calabrese rivelò successivamente al deserto iniziale di Paola scaturivano visibilmente dalla stessa esperienza dello speco, che risultò essere il fondamento che funse da anima, motivazione e filo conduttore di ogni suo operato.

  Non per niente Francesco mostrerà predilezione verso la solitudine, coltivando sempre la grotta materiale e spirituale in qualsiasi luogo si troverà a vivere ed interagire: anche quando fonderà gli altri conventi dell’Ordine nelle immediate vicinanze di Paola come a Paterno Calabro, Spezzano, Corigliano riserverà sempre per se stesso un antro nel quale rifugiarsi per trovare sollievo nella solitudine e dovunque procaccerà sempre la grotta come luogo, tempo e spazio di raccoglimento nella solitudine e nell’isolamento, anche quando la grotta non si identificherà con la caverna materiale. Dove infatti Francesco non trova una caverna rocciosa o un’incavatura rimedia sempre una celletta, un abituro o comunque un luogo isolato dove trascorrere la maggior parte del suo tempo nella solitudine e nella familiarità con Dio e questo anche nella differente condizione in cui si troverà a vivere alla corte del Re di Francia, dove preferirà il solitario parco regale alla sontuosità dei suoi appartamenti. Cosicchè la dimensione della vita ritirata sarà sempre una costante nella vita e nella spiritualità del nostro Paolano, anche se affinata al contatto con il popolo e con la vita del cenobio.[84]

     Il valore della riscoperta di Dio e della convinzione della sua grandezza rapportata al nostro nulla e alla nostra peccaminosità è alla radice di qualsiasi trasformazione possibile e il silenzio, la solitudine e l’abbandono sono coefficienti appropriati per l’acquisizione di questa coscienza di Dio.

  La solitudine permetteva a Francesco la privilegiata possibilità di esperire la superiorità incommensurabile di Dio che valica la piccolezza dell’uomo mostrandogli la banalità delle sue aspirazioni ambiziose, la grandezza del Signore che non è di confronto con le precarietà e le miserie di cui è costituito il soggetto umano e lo stato di meschinità in cui noi tutti ci troviamo a trovare nelle nostre ostinazioni di peccato di fronte alla ineffabile preponderanza del divino.  Tuttavia nella grotta Francesco ebbe modo anche di scoprire il valore di garanzia e di convenienza che comportano la sottomissione al Signore e il riconoscimento della sua supremazia: la solitudine e la provata consapevolezza dello stato di nullità di fronte al Tutto che è Dio permettono infatti di riscontrare ed esperire che è necessaria la familiarità con Dio per la realizzazione di noi stessi e il raggiungimento delle nostre ambizioni e che senza l’appoggio del divino nulla è possibile. Questo soprattutto perché nella vita eremitica si riscontra anche l’importanza dell’amore di Dio nei nostri confronti e della sollecitudine con cui Egli intende raggiungere il nostro stato di peccaminosità per riscattarlo. Dio è amore e nel mostrare la sua misericordia chiama lui per primo l’uomo alla comunione con sé nella volontà innata di salvare quanto è stato perduto; l’uomo percepisce il suo stato di peccaminosità e di vacuità riscoprendo come esso sia lesivo e pernicioso per la sua felicità; si accorge di dover irrimediabilmente cambiare direzione nell’impostazione della sua vita per orientarsi del tutto a Dio, convincendosi di Lui e di conseguenza opta per la conversione.

 

2.4 La penitenza

 

  Abbiamo così individuato la definizione appropriata dal carisma di San Francesco, che apparterrà definitivamente alla famiglia religiosa di cui sarà Fondatore: riscoprire il primato di Dio su tutto vuole dire convertirsi, optare per il ritorno radicale e convinto al Dio dell’amore e della salvezza; si tratta quindi del carisma dell’esclusività della penitenza.

  Nella stesura delle varie Regole dell’Ordine Francesco non adopererà immediatamente questo termine, ma lo indicherà solamente nella Seconda Regola.

  Dire che San Francesco sia stato instauratore in se stesso e nell’Ordine del carisma della penitenza è riduttivo, visto che in tal senso non avrebbe apportato molto di nuovo nella vita della Chiesa: penitenza e conversione sono urgenze di ogni cristiano in tutti i tempi e indipendentemente dallo stato di vita personale in cui si vive. Quello di Francesco fu invece il dono della maggiore penitenza, ossia di essere in se stesso un orientamento per quanti nella Chiesa intendono convertirsi e optare per Dio. Se così non fosse, il carisma insito nella sua figura e nella sua persona non avrebbe apportato nuovi contributi nella vita della chiesa al punto da trascinare al suo seguito moltissime persone. Scrive Galuzzi: “S. Francesco è visto come un vero uomo di Dio: ancora vivente, anche se carico di anni (aveva 86 anni), è presentato come colui che nel suo movimento penitenziale aiuta la chiesa a ritornare al Vangelo, sottolineando il ruolo della Vita Quaresimale, volutamente rimarcata per il suo stretto legame con la penitenza e la conversione evangelica… Il Fondatore non ha scritto alcun trattato sulla penitenza: è stato modello di vita penitente e austera, giudicata umanamente quasi impossibile, ma… egli è stato ‘faro e luce ai penitenti’, i Minimi oggi sono chiamati a riscattare con il loro esempio i fratelli ‘da quel certo lassismo morale che la società contemporanea offre con troppa facilità’ e a vivere la loro testimonianza con eroismo e coerenza… Il Paolano ha voluto offrire nella Regola un punto di riferimento per la ricerca della ‘maior paenitentia’: non è la regola esaustiva delle riforme penitenziali, ma orientativa e promotrice di sempre nuove vie, che il singolo e la comunità possono trovare nel vivere l’amore a Cristo penitente.”[85] E tale è stata anche la definizione che Giulio II ha apportato nella bolla Inter ceteros del 28 Luglio 1506 che approvava definitivamente la Regola dei Minimi: “”tamquam lumen ad illuminationem poenitentium in Ecclesia militante. E la stessa Regola definitiva impone che “Coloro che per amore alla vita quaresimale e nell’intento di fare maggiore penitenza desiderano entrare in quest’ordine dei Minimi saranno accolti in qualità di Chirici, Laici o Oblati…””[86]  Se la vita della chiesa suppone insomma la penitenza per ogni cristiano occorre che vi sia chi indirizzi i cristiani verso tale prospettiva, per far si che si trovi un orientamento specialmente per quanti intendano percorrere un itinerario penitenziale in vista del Regno ed è molto conveniente che tale indirizzo lo si riscontri sotto l’esemplarità di persone che nella prassi e nel vissuto abbiano coltivato il medesimo carisma. Così Francesco, non essendo per niente edotto sul tema penitenza e non avendo elaborato alcuno scritto sulla tematica, si è mostrato egli medesimo elemento di attrazione verso quanti intendevano fare penitenza nella Chiesa, lasciando al suo Ordine il patrimonio dell’eredità quaresimale che è racchiuso in una Regola. Sicchè per suo volere, i Minimi sono chiamati a realizzare tutto l’anno quello che nella chiesa di fatto si vive specificatamente in un solo periodo liturgico.

  La penitenza è un itinerario che ha inizio con l’iniziativa di Dio che ci chiama alla comunione con sé e intende convertirci lui per primo attraverso un itinerario che comporta la presa di coscienza della precarietà che il peccato comporta, consapevolezza del proprio stato di autolesionismo e di nullità nella perseveranza nel male, riscoperta della validità di Dio da scegliersi come alternativa alle proposte del mondo questo inteso come affiatamento verso il male e finalmente opzione incondizionata per Colui che intende salvarci. In una parola potremmo dire che convertirsi vuol dire convincersi dell’amore di Dio. Si converte quindi chi si accorge dell’iniziativa primaria di Dio che tende ad attirarci alla comunione con sé; percepisce il proprio stato di peccaminosità reputandolo pernicioso per se stesso e per gli altri e comunque melense e banale considerando la propria nullità e piccolezza in rapporto alla grandezza di Dio, riconosce la vanità e la sconclusionatezza di questo vivere nel peccato e ammette che solo Dio è l’alternativa più conveniente; di conseguenza muta radicalmente se stesso nella mentalità, nelle abitudini e nell’impostazione di vita; finalmente assume come conseguenza un comportamento che contrassegnerà la sua persona come uomo di amore nella concretezza delle opere buone che scaturiscono dalla sua avvenuta trasformazione.

  Siffatto elemento di mutazione è determinante perché si possa coltivare la fede nel Signore, secondo la metanoia che comporta una svolta, o meglio un ritorno all’origine che è Dio operata da una trasformazione radicale della persona[87]  voluta da Gesù nel “Convertitevi e credete al Vangelo”: se non si è optati per una metamorfosi radicale di se stessi interamente nella piena radicalità del pensiero oltre che dei costumi, sarà impossibile che si possa approdare al credere e all’affidarsi, perché in effetti non ci si sarà convinti in pienezza della nuova vita in Dio e nel suo Figlio Gesù Cristo.

  La fede è la caratteristica determinante con cui noi possiamo rapportarci al divino per qualificare in Lui la nostra vita, ma come scrive Ratzinger essa può rischiare di trasformarsi in una mera ripetizione vacua di formule quando non sia la conseguenza di un movimento dell’intera esistenza umana e non si qualifichi come la svolta di tutto l’uomo che da quel momento in poi struttura stabilmente l’esistenza. Quindi la fede “ha il suo posto nell’atto di conversione, nella svolta dell’essere che passa dall’adorazione del visibile e del fattibile al fiducioso abbandono all’invisibile”[88]

  La vita penitenziale di San Francesco con il suo configurarsi ai Padri del deserto ha voluto così costituire un richiamo esplicito alla conversione in vista della fede, poiché le caratteristiche della grotta e del silenzio che hanno qualificato il lui l’intero uomo sono state apportatrici di una radicale trasformazione della propria persona in vista del rinnovamento del mondo e il fatto che abbiano affascinato moltissime persone spronate alla sequela del suo esempio testimonia che la necessità della conversione radicale e decisa nell’uomo era tutt’altro che fittizia nel suo contemporaneo; Francesco così con la sua stessa persona e la sua dedizione alla vita contemplativa, pur omettendo ogni forma di apostolato e di predicazione sul tema, ha funto da richiamo intorno alla necessità del primato di Dio, che tuttavia è possibile a raggiungersi non senza la presa di coscienza della vanità del secolo presente e della convenienza dell’orientarsi costantemente a Lui. La grotta insomma è stata il luogo nonché il tempo in cui Francesco ha preso coscienza egli stesso il valore della trasformazione della persona nella sua interezza: spirito, mente, corpo, convinzioni in vista del divino  e in tale direzione ha orientato quanti lo seguivano e quanti ammiravano il suo stile di vita e il suo portamento. La trasformazione – metanoia è stata certamente alla radice dell’accoglienza del dono della fede.

2.4.1 Accostamenti biblici

 

  Nell’Antico Testamento in verità la penitenza come iniziativa di risposta da parte dell’uomo singolo e della comunità era un espediente che si verificava con il solo tentativo di acquietare l’ira di Dio e scongiurare divine punizioni, come per esempio nel caso Baruc dove si ravvisa che la schiavitù del popolo di Israele a Babilonia era determinata dalla trascuratezza dei precetti e delle norme divine oppure come nel caso di Gioele dove l’invito al digiuno e alla penitenza è orientato a riacquistare i favori divini a seguito di una tremenda invasione di cavallette che ha distrutto il raccolto (Gl 1-2). Altrove la conversione è interpretata come mezzo finalizzato ad ottenere grazie o speciali favori divini e riconquistare l’amicizia con Dio dopo una punizione.  A riprova di questo è il fatto il Signore riprova il suo popolo per non aver optato per una conversione effettiva e radicale, come nel famoso caso dell’ammonizione “Laceratevi il cuore, non le vesti”(Gl 2, 13), e in particolare modo in Isaia 58, quando Dio deve illustrare al suo popolo il vero senso del digiuno e dell’astinenza come elemento che qualifica la condivisione delle proprie sostanze con il povero e con la vedova.[89]

  La concezione più esaustiva e conveniente della penitenza la si riscontra tuttavia in Cristo.

  A dire il vero, prima ancora del Redentore un altro personaggio si impone come esauriente nella tematica della conversione, Giovanni Battista,[90] profeta di salvezza ventura e pertanto al contempo della necessità che tutti si adoperino per una decisa e convinta trasformazione della propria vita in senso divino; ma poiché la figura e l’attività del Battista è finalizzata e orientativa a Cristo, possiamo affermare senza smentirci che già in lui vi è l’esemplarità dello stesso Signore in fatto di penitenza. Infatti, guardando da vicino la figura di Giovanni, la sua predicazione e l’annuncio del della necessità di battezzarsi rientrano ancora nella dinamica della tassatività veterotestamentaria giacchè egli impone la conversione per scongiurare una possibile reazione da parte di Dio, ma  ci piace vedere in San Giovanni già l’emblema della conversione in vista della fede e della comunione con Dio, quindi l’assertore di un elemento indispensabile necessario perché noi possiamo essere salvi. E questo già nel suo stesso regime di vita di Giovanni che vive nel deserto e qui inizia il suo ministero innanzitutto verso se stesso e la propria persona visto il suo abbigliamento da profeta veterotestamentario di stile essendo e la presenza di uomo irsuto e austero che si ciba di locuste selvatiche osservando certamente moltissimi digiuni e astinenze. La sua figura  rievoca la fuga dal  Elia (Gesù infatti dirà che è appunto il Battista "quell' Elia che sarebbe tornato nel mondo) ed è foriera di un messaggio incisivo e determinante. 

  Come del resto abbiamo riscontrato anche nella vita degli eremiti, ivi compreso Francesco di Paola, gli esegeti sono concordi nell'affermare che nella Sacra Scrittura il deserto non è mai una condizione definitiva. Chi vi entra non è destinato a rimanervi costantemente ma solo a transitarvi o a soggiornarvi temporaneamente in vista di un incontro con gli uomini e di una missione. E' quindi uno stato di provvisorietà, e considerando l'insieme delle cose non può essere altrimenti: una volta fatta esperienza di Dio non si può omettere di uscire dal deserto per comunicare la Voce e il Messaggio agli uomini affinché accolgano a loro volta l'appello alla conversione, innanzitutto modificando il proprio modo di pensare e le proprie convinzioni, quindi trasformando la mentalità sulla scia della Parola di Dio e poi facendo frutti di penitenza. Così Giovanni dal deserto passa al Giordano per impartire a tutti un Battesimo simbolo di conversione a Dio, di avvenuta maturazione personale nella risposta al divino appello.

  Ma è soprattutto è l’incalzante appello alla radicale conversione che costituisce la novità di questo uomo espressamente anacoreta che chiede un orientamento della vita dell’uomo che imponga l’abbandono dello stato di peccaminosità attuale per la novità in Cristo Dio fatto uomo. Come egli stesso afferma, non è lui il Messia e pertanto non sarà lui ad apportare la salvezza al genere umano, tuttavia il ruolo che assume è di importanza non secondaria in ordine alla missione realizzata poi da Gesù: con la sua opera, la sua predicazione, e soprattutto con il suo atteggiamento predispone negli animi di tutti la venuta del Salvatore affinché la trasformazione della vita possa lasciare spazio alla fede in Lui.

  La frase chiave che ci può aiutare a comprendere il senso della sua presenza previa a Gesù Cristo è senz'altro questa: " Raddrizzate i vostri sentieri; ogni uomo vedrà la salvezza di Dio" con cui esprime la garanzia che suscita la predisposizione dell’animo all’incontro con il Signore venturo giacchè mostra il dono della salvezza come conseguente dell’avvenuta conversione.
  In sintesi, il Battista, uomo essendo e peloso nell'abbigliamento nonché parco e austero nel suo vitto e vestiario rivolge 1) un annuncio; 2) un'esortazione. Nel primo caso infatti egli proclama la volontà di Dio per cui l'uomo non si smarrisca e quindi l'amore di Dio che si spinge a beneficio dell'uomo fino a farsi uomo Egli stesso per raggiungerci; nel secondo caso, come conseguenza Giovanni invita a corrispondere a questo amore singolare divino per l'umanità attraverso il radicale cambiamento di se stessi, delle proprie convinzioni, costumi, mentalità e atteggiamenti e cioè la conversione. Giovanni introduce il credente alla condizione essenziale della fede, cioè la conversione e Gesù reca a tutti quello che è l'oggetto della fede, cioè il Regno di Dio nel Cristo Stesso Verbo fatto uomo.

  Pertanto “Se per Giovanni Battista bisognava convertirsi mediante il battesimo di penitenza per fuggire all’ira di Dio (Mr 1, 4), per Gesù è necessario convertirsi per sapersi introdurre nel nuovo Regno”[91] ; tuttavia mi ostino personalmente a riscontrare già nel messaggio del Battista un orientamento positivo nell’annuncio della conversione, scevro da vincoli di coercizione e da imposizioni minatorie ma atto a ravvivare nell’uomo la ricerca sempre maggiore di Dio per la stessa ragione del suo benessere personale. Del resto, Giovanni invita alla conversione affermando “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 3,2) il che si accosta notevolmente all’esortazione di Gesù “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo.” (Mc 1, 15) che dal canto suo denota un evento nuovo che sta per cambiare radicalmente il cuore dell’uomo e tende ad incidere su tutta la dimensione del suo vissuto.

  Vi è stato chi ha voluto accostare il deserto di Giovanni Battista con quello di San Francesco di Paola o almeno lo ha assimilato nello stile di vita[92] e fondamentalmente nella risultante vi sono delle analogie: ambedue le persone sono orientate alla predicazione della necessità della riscoperta di Dio, a comunicare lo stesso appello al ravvedimento e alla conversione e la medesima disposizione dei cuori perché si ricerchi sempre Dio e lo si collochi al primo posto; anche lo stile di vita personale di ambedue i personaggi è simile e richiama l’impronta ascetica penitenziale propria di chi vive in prima persona il messaggio di cui si sta rendendo latore. In San Francesco vi è però già la conoscenza personale delle aspettative del Regno di cui aveva fatto esperienza nella sua vita di fede e a cui aveva aderito sin dal Battesimo e non annuncia pertanto una novità messianica come il Battista, ma tende a rievocare e rammentare a tutti la verità che gli uomini hanno smarrito che è la stessa di sempre, lo stesso Vangelo legato allo stesso Cristo che è il medesimo oggi e sempre.

  Emblema di penitenza e di conversione suole proporsi alla nostra attenzione lo stesso Gesù Cristo, particolarmente nell’attitudine con cui egli intende richiamare alla coscienza la consapevolezza dei nostro peccato. Riconoscere i nostri peccati è infatti la primaria tappa costitutiva della nostra conversione sicchè, seppure Figlio di Dio e per niente bisognoso di sottoporsi a battesimo alcuno, Gesù non esita a proporsi al Battista per ricevere il battesimo di conversione: davanti allo stupore dello stesso profeta che battezza con acqua, Gesù fa la fila con i peccatori giustificando questo suo atteggiamento come necessario affinché si compia ogni giustizia: “Lascia fare per ora, perché conviene che così adempiamo ogni giustizia” (Mt 3, 15). Il termine giustizia viene a connotare qui la volontà di Dio e il progetto che il Padre sta portando a termine nel Figlio per la salvezza dell’uomo e in questo caso specifico richiede che il Figlio di Dio si renda solidale con i peccatori che vogliono convertirsi collocandosi in mezzo a loro e accompagnandoli nella loro esperienza di conversione. Allo stesso tempo però Gesù, pur essendo immune da macchia di peccato sottolinea la necessità che ci si ponga sempre di fronte al proprio peccato e che lo si riconosca senza riserve, ammettendolo come esiziale per la nostra vita per debellarlo definitivamente.   

 Altro episodio degno di menzione che richiama anche non pochi aspetti della grotta del nostro Paolano  è quello della  permanenza di Gesù per quaranta giorni nel deserto in preda alle tentazioni.

  Quaranta nella Bibbia è sempre un numero simbolico che attesta ad un lungo periodo di patemi, privazioni, rinunce[93]; pertanto anche in questo caso suppone un lunghissimo periodo che Gesù accetta di accettare nella precarietà delle condizioni climatiche del luogo e nella restrizione fisica.   Gesù viene tentato dal demonio in una condizione personale nella quale chiunque sarebbe potuto cadere accogliendo proposte sottili e accattivanti quali erano quelle che il maligno gli stava propinando servendosi addirittura della Parola di Dio ma oltre che resistere alle prove e alle tentazioni mette in fuga Satana mostrando così che l’alternativa di Dio è superiore alle proposte del male. Se Gesù si sottopone alle tentazioni del principe delle tenebre che egli dominerà nel ministero degli esorcismi, ciò vuole significare come la prova sia possibile ad essere superata nelle condizioni di precarietà e di miseria morale in cui tutti possiamo trovarci e che la scelta del divino apporta conseguenze di salvezza e di realizzazione.

  Il diavolo, una volta sconfitto, si allontana “per ritornare al momento opportuno”, ossia quando giunge “l’ora” delle tenebre nella quale il Figlio dell’uomo verrà consegnato in mano agli aguzzini che lo uccideranno attraverso il patibolo violento della croce. Proprio in quest’ora, che determina l’impero delle tenebre, s ravvisa per intero il valore della penitenza di Gesù: per volontà del Padre egli dona se stesso in riscatto per la salvezza del mondo, giacchè nel suo sangue si realizza il riscatto dei peccati dell’umanità e noi veniamo “comprati a prezzo”. (1 Cor 6,20, 7, 23; 1 Pt 1:18-19). Il prezzo del riscatto dell’umanità pagato direttamente dall’Agnello con il sangue. Affrontare i patimenti per la salvezza dell’uomo è la penitenza che Gesù ha voluto consapevolmente subire e che si ripete anche nelle membra dei suoi membri, i battezzati, che partecipano della redenzione di Cristo sacrificando i propri patimenti ai fini di guadagnare altri alla salvezza, come anche si evince in San Paolo: “Completo nella mia carne ciò che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo corpo che è la Chiesa.”(Col 1, 24).

  Nelle immolazioni di Francesco nella grotta non è fuori luogo riscontrare la partecipazione ai patimenti stessi di Cristo per il riscatto dell’umanità, essendo oltretutto ogni forma di ascesi e di rinuncia legata anche al bene universale della Chiesa che dal canto suo, quale Corpo di Cristo costituito dal Signore Capo e dalle membra dei battezzati, attraverso l’esperienza di ciascuno tende a redimere e a salvare gli altri. Sicché l’umiliazione della grotta non è stata inutile in Francesco perché si realizzasse il completamento della missione redentrice di Cristo nelle sue stesse membra.

  In Francesco vi è stata insomma la compartecipazione alle sofferenze redentive di Cristo che espiavano il peccato del mondo e questo era uno degli impegni dell’ascesi di San Francesco che soleva associarsi alla passione del Signore che aveva deliberato la via della sofferenza per il riscatto di tutti: “… l’impegno ascetico in Francesco aveva un’altra finalità oltre a quella di esprimere la volontà di essere tutto del Signore. Tale finalità era quella di partecipare dell’espiazione che Cristo ha fatto del peccato del mondo. Il Cristo del deserto è anche il Cristo, che, rifuggendo la via del potere e della gloria, sceglie la via dolorosa della condivisione del peccato del mondo. ‘ Coluii che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio (2 Cor 5, 21), e ancora. Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi (Gal 3, 13)’”[94]

 

2.5 L’ascesi e il digiuno

 

Afferma tuttavia Paolo VI che la penitenza non è reale né fattibile senza che essa comprenda l’esercizio della rinuncia e della mortificazione nell’ascesi fisica: “La vera penitenza però non può prescindere, in nessun tempo, da una ascesi anche fisica: tutto il nostro essere, infatti, anima e corpo, anzi tutta la natura, anche gli animali senza ragione, come ricorda spesso la Sacra Scrittura, deve partecipare attivamente a questo atto religioso con cui la creatura riconosce la santità e maestà divina.”[95] Nella mortificazione corporale infatti avviene che non soltanto lo spirito ma anche il corpo trova lo slancio per elevarsi al divino alleggerendosi delle cose temporali in modo che l’ascesi a Dio abbia come protagonista l’intero soggetto umano nella totalità. E’ l’uomo intero che aspira al divino e non solo il suo aspetto spirituale e se è vero che la materia è comunque facente parte della struttura del soggetto umano in piena simbiosi con lo spirito, ne deriva che non solo questo ma anche quella deve elevarsi.

    La riscoperta della liberazione dai vincoli terreni per aspirare al divino produce del resto un senso di serenità nell’alleviamento dei pesi futili sicchè nella rinuncia corporale si sperimenta anche la vanità di tanti espedienti di cui solitamente ci si sovraccarica.

  A dire il vero non ci è consentito identificare la prassi ascetica generale con la sola rinuncia fisica, giacchè il senso del termine è molto più vasto: nella parola ascesi (greco askeo) si intende infatti un qualsiasi sforzo atto ad acquisire un progresso o un vantaggio. Nel linguaggio ellenistico antico asceta era anche il soldato che si esercitava nell’uso delle armi e nell’abilità della lotta; ascesi era anche l’esercizio del filosofo che affinava le sue doti di raziocinio e di intelligenza in vista del sapere e anche nella Bibbia si trova un linguaggio simile in San Paolo attraverso una comparazione atletica: negli stadi si corre tutti quanti, ma uno solo raggiunge il premio; noi dobbiamo correre come se dovessimo conquistarlo (1 Cor 9, 24 – 27).

  Anche per il cristianesimo l’ascesi è un esercizio di lotta per un vantaggio, che potremmo delineare con l’aiuto della Gaudium et Spes: “L’uomo si trova diviso in se stesso. Per questo tutta la vita umana, sia individuale che collettiva, presenta i caratteri di una lotta drammatica fra il bene e il male, tra la luce e le tenebre.”[96] Il che significa che in questa ambivalenza di cui è prigioniero l’uomo si impone un combattimento ascetico di lotta contro il peccato, il quale è favorito dalla grazia di Dio ma che non può escludere i ricorsi umani.

  Se il peccato danneggia l’uomo nella sua totalità si come dimensione globale (struttura di peccato) sia come atto personale soggettivo (peccato attuale) e apporta il suo fattore distruttivo anche nell’ambito della comunità ecclesiale[97] primo impegno del soggetto cristiano è la lotta libera e consapevole contro il suo stato personale di peccatore, anzi contro il sistema che lo induce a preferire le tenebre alla luce e in particolar modo contro quella inclinazione cattiva che conduce tutti a omettere di fare quello che si vuole per fare quello che non si vuole, che le Scritture neotestamentarie definiscono concupiscenza: “Dunque ciò che è buono divenne morte per me? No, certo! Ma il peccato, per manifestarsi come tale, mi diede la morte per mezzo di ciò che è buono, affinché il peccato, per mezzo del precetto, si riveli in tutta la sua malvagità.

Sappiamo infatti che la legge è spirituale, ma io sono carnale, venduto schiavo al peccato. Non comprendo quel che faccio, perché non faccio quel che voglio, ma quello che odio. Or, se io faccio quel che non voglio, riconosco che la legge è buona. Dunque, non sono io che faccio il male, ma il peccato che abita in me.

So infatti che non il bene abita in me, cioè nella mia carne, poiché il volere sta in mia mano, ma non il fare il bene, poiché non faccio il bene che voglio, bensì il male che non voglio. Or, se io faccio ciò che non voglio, non sono io che lo faccio, ma il peccato che abita in me. Io riscontro dunque in me questa legge, che volendo fare il bene, mi si presenta il male. Difatti, secondo l'uomo interiore, provo diletto nella legge di Dio, ma vedo nelle mie membra un'altra legge, che lotta contro la legge della mia mente e che mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra. Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? Siano rese grazie a Dio: per Gesù Cristo, Signore nostro! Dunque, io stesso, con la mente servo della legge di Dio, ma con la carne servo della legge del peccato.” (Rm 7, 13-25). Dice poi espressamente Giacomo: “Nessuno, quando è tentato, dica: "Sono tentato da Dio"; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male. Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce; poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato, e il peccato, quand'è consumato, produce la morte.” (Gc 1, 13 -15). Si tratta di quella inclinazione cattiva connaturale alla vita umana che induce anche il soggetto più ben disposto a commettere il male che di per sé egli non preferisce e che pertanto è alla radice del peccato. Secondo alcune branche del protestantesimo essa coincide con il peccato stesso, per cui l’uomo è suscettibile di condanna già sin dalla nascita.

  Accompagnati dalla grazia divina, possiamo affrontare la concupiscenza con il dominarla e padroneggiarla, e questo comporta una lotta spirituale continua e l’ascesi à la forma di combattimento più promettente contro siffatta inclinazione malvagia dell’uomo.

  Cosicché persone come san Francesco abbracciano l’ascesi con la preghiera e con il sacrificio.

  Il primo dei due aspetti menzionati è irrinunciabile per una conduzione efficace della vita ascetica: parecchi uomini di spirito hanno interpretato la preghiera come l’elemento di innalzamento dell’uomo verso i misteri e coefficiente di introduzione alla vita divina: “… l’orazione mentale consiste infatti in una presa di coscienza sempre più profonda del contenuto del mistero di fede e comporta così una trasformazione della coscienza cristiana nei giudizi, negli affetti e anche nelle immagini, che si conformano ai dati della rivelazione.”[98] Appunto perché l’orazione conduce a familiarizzare con Dio e ad instaurare i rapporti intimi con Lui soprattutto nel raccoglimento e nella contemplazione, distoglie le attenzioni dalla debolezza della carne, aumenta il desiderio dell’Assoluto e favorisce la ricerca continua delle realtà celesti, in più permette di riscontrare la vicinanza di Dio nelle nostre debolezze e pertanto è un elemento utile per la vittoria sul peccato.

  Ma anche attraverso la scelta del sacrificio si riscontra la positività della lotta contro il male in se stessi giacchè con esso ci si conforma direttamente a Cristo diventando noi stessi “sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (Rm 12, 1) e per questo san Francesco, sulla scia di altri asceti e penitenti non ha disdegnato di sacrificare le proprie membra mortificando il suo corpo con molteplici vessazioni atte a placare gli istinti e il vizio: a detta dell’Anonimo, come abbiamo già visionato[99], era proclive alle consuetudini più severe e rigorose dell’austerità del vitto e del vestiario essendo tanti i digiuni a cui sottometteva il proprio corpo unitamente alle scomodità a cui costringeva le sue membra, sia per tutto il tempo in cui visse nella grotta, sia per il periodo in cui portò la grotta nella dimensione del vissuto sociale a Paola, in Calabria fino in Francia, tuttavia “La grotta è il luogo materiale ove la scelta dell’ascesi da parte del Paolano appare chiara ed evidente. Essa infatti ci richiama il sacrificio vivente, che è a fondamento di ogni altra forma ascetica. I digiuni, le veglie, la povertà, il duro lavoro manuale, sono tutte espressioni secondarie di quel sacrificio vivente che è l’uomo nell’atto di offrire la sua vita a Dio.”[100] Ma offrendo la vita a Dio si rinuncia al peccato e ai piaceri della carne, per cui ci si santifica interiormente liberandosi dalle proprie inclinazioni perverse ed estinguendo i fervori dell’effimero. Accanto alla preghiera e alla carità, e nel caso di Francesco anche alla povertà e al lavoro manuale, il digiuno è espediente di sublimazione dei sensi e sottomissione del corpo allo spirito che, lungi dall’essere deprezzamento del fisico e della carne, tende a nobilitare l’uno e l’altra nella dignità e per questo motivo si riscontrerà che la pratica del digiuno e dell’astinenza sarà una costante di tutte le Regole che Francesco dovrà redarre prima della stesura definitiva; senza tuttavia che la rinuncia e la mortificazione corporale mostri lesioni di sorta al corpo e allo spirito del Penitente che, come nota il discepolo sconosciuto, si mostrava sempre “rubicondo nel volto, come se avesse mangiato ogni giorno cibi squisiti”[101]

  A proposito del digiuno, la nota dei vescovi sopra riportata tende a sottolineare un dato che non va trascurato nella nostra vita spirituale: “Pur guardando con rispetto a queste usanze e prescrizioni — specialmente a quelle degli ebrei e dei musulmani —, la Chiesa segue il suo Maestro e Signore, per il quale tutti i cibi sono in sé buoni e non sono sottoposti ad alcuna proibizione religiosa, e accoglie l’insegnamento dell’apostolo Paolo che scrive: «Chi mangia, mangia per il Signore, dal momento che rende grazie a Dio» (Rm 14,6).[102]

  Alla base del vero e proprio digiuno vi è pertanto la consapevolezza della bontà e utilità intrinseca di tutti gli alimenti. Non necessariamente infatti la mortificazione delle membra e il digiuno corporale si hanno quando il soggetto spirituale batte queste strade per il solo motivo che non preferisce determinati cibi; questa condizione sarebbe anzi motivo per ritenere la pratica del digiuno inesistente o irrilevante poiché la mortificazione e la vera rinuncia si hanno su qualcosa che viene ritenuto veramente apprezzabile e rinunciare a qualcosa che di fatto non ci piace in partenza non comporta fattori di mortificazione e di eroismo. Quello che si vuole sottolineare è comunque la certezza che nel digiuno e nella mortificazione corporale non va smentito il valore di alcun cibo: “Il ventre è per i cibi e i cibi sono per il ventre” “ e a Pietro: “Ciò che Dio ha purificato tu non chiamarlo più profano” (At 10, 15). La scelta della mortificazione deve scaturire pertanto non da una forma di disprezzo dei cibi o della materia, ma da un pieno convincimento della validità di essi, come valori a cui saper rinunciare in vista di un ideale più alto che nel caso cristiano è lo spogliamento di se stessi per l’acquisto di Dio e la realizzazione umana nella libertà delle passioni.

   Ad avvalorare poi la prassi del digiuno e della mortificazione del corpo è anche la compartecipazione alla vita e ai patimenti di Cristo, che nessun asceta omette di manifestare con orgoglio e convinzione di causa nella sua prassi anacoretica: qualsiasi sacrificio è condivisione della passione di Cristo sulla croce e da essa trae la sua motivazione e trova il suo sprone e anche la mortificazione corporale della rinuncia alle voluttà e al cibo anche fra quello legittimo è segno del nostro aderire al supplizio del Redentore; digiunare è quindi condividere il patema del Redentore nel suo supplizio di morte e immedesimarsi nelle sue sofferenze, tutto questo non senza una importante risultante di perfezione morale, così come affermano i Vescovi italiani: “Per il cristiano la mortificazione non è mai fine a se stessa né si configura come semplice strumento di controllo di sé, ma rappresenta la via necessaria per partecipare alla morte gloriosa di Cristo: in questa morte egli viene inserito con il Battesimo e dal Battesimo riceve il dono e il compito di esprimerla nella vita morale (cfr. Rm 6,3-4), in una condotta che comporta il dominio su tutto ciò che è segno e frutto del male: «fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria» (Col 3,5).”[103]

  La vita morale di cui parla il testo è quella in definitiva della libertà e della pace interiore che si trovano nella padronanza dei propri istinti e delle proprie passioni per cui il corpo non si sottomette più alla libidine e alla lussuria dandosi a opere riprovevoli ma si associa in piena simbiosi con la razionalità, caratteristica fondamentale che distingue l’uomo dal resto del regno animale giacchè lo rende capace di riflettere e controllare la sua naturale passionalità. Progressi che si raggiungono tuttavia solo nel rinnovare la nostra adesione a Cristo che noi riteniamo nostro associato nella morte e nella risurrezione: specialmente nel mistero dell’immolazione di Cristo e nel valore della sua morte salvifica per la nostra salvezza possiamo riscontrare il senso pieno della nostra rinuncia corporale giacchè proprio questa ci conduce a configurarci con le sue sofferenze redentive e acquisire così la sua stessa dimensione salvifica. I Vescovi notano che la nostra appartenenza e configurazione a Cristo la si riscontra nel Battesimo, che di fatto è il lavacro di rigenerazione in cui si rinasce a vita nuova avendo accantonato le discrepanze del peccato e nell’intera vita battesimale procede tutta la nostra esplicitazione di appartenenza a lui. Ragion per cui il digiuno e la penitenza non possono sussistere se non in linea con la vita cristiana battesimale, trarre imput da essa e verso di essa tendere come fine ultimo, affinché il digiunare e il mortificare il corpo siano coefficienti del progresso della vita cristiana. I Vescovi del resto notano anche che le motivazioni della scelta del digiuno possono essere varie e seguire metodologie ben più severe di quelle previste dalla Chiesa e rivestire anche ambiti e dimensioni tutt’altro che spirituali come in certi casi ormai arcinoti della politica, ma non attribuire un fondamento spirituale e un obiettivo di disciplina personale e di progresso personale al valore del digiuno può corrispondere a una vacua immolazione del corpo priva di garanzie oltre che di fondamento.

    Gli eremiti e coloro che menavano vita solitaria ci sono di sprone invece a guardare al digiuno come a un veicolo di perfezione personale e di rinnovamento interiore, nella liberazione dalle passioni, nell’autodisciplina e nella rinuncia ai piaceri della carne di cui è espressione la rinuncia a determinati alimenti e in tutti coloro che hanno prediletto la vita eremitica non è mancato che il digiuno e la privazione esternasse l’amore verso Dio nello specifico delle sofferenze di Cristo sulla croce che erano sempre oggetto di condivisione e di comunione con Lui.

  Sotto questi aspetti Francesco non fa eccezione:  nella sua grotta ascetica e penitente, come pure nella volontà di mortificarsi per tutta la vita attraverso digiuni, astinenze e penitenze, portando il cilicio mentre “menava vita austera, disciplinandosi ed esercitandosi nella mortificazione di tutte le passioni, con digiuni, veglie e altre sofferenze indicibili”[104], placava i desideri insani ed estingueva il fuoco della libidine intendendo con questo affermare che lo svuotamento del corpo alleviandoci dal peso delle futilità, ci rende padroni di noi stessi e dei nostri sensi. Ma dai detti di Francesco come pure dalla vita e dalle molteplici opere risulta che l’ascesi sia stata da parte sue vissuta come desiderio che è proprio della pratica di tutti coloro che comprendono il valore della morte di Cristo: partecipare della morte del Redentore per immedesimarsi nella sua stessa missione di salvezza dal peccato riscattando i peccati di se stessi e dell’intera umanità; nella deliberazione di Francesco vi è la lotta contro il peccato che giunge ai suoi esiti dopo aver conosciuto livelli soddisfacenti e guadagnato mete considerevoli e poiché la nostra vita è soggetta al peccato e non di rado ci impone di adagiarci e adeguarci alle sue insidie, l’esemplarità del Paolano non può che incoraggiare anche al giorno d’oggi questo combattimento spirituale utile perché il mondo si salvi a partire dal singolo soggetto.

  Tale configurazione a Cristo era certo per Francesco una costante considerazione giacchè egli affrontando i suoi patimenti immaginava non di rado le sofferenze a cui Cristo dovette sottoporsi con umiltà e l’annientamento che accettò volentieri e senza condizioni, e il riferimento al Crocifisso era costante nei suoi pensieri se è vero che più di una volta lo si vedeva riverso sul pavimento emulare la stessa posizione assunta da Cristo sulla croce mentre nei suoi discorsi era frequente la sottolineatura di tutti quei patimenti che il Redentore per amore nostro dovette affrontare sulla croce.

  Il valore del digiuno come astinenza dalla carne o dai cibi durante determinati periodi liturgici dell’anno oggigiorno è molto relativo e addirittura insignificante se relazionato alle restrizioni a cui si sottoponevano gli eremiti delle epoche remote e dell’età postmedievale, ivi compreso il nostro Santo: ad eccezione che in particolari gruppi o associazioni ecclesiastiche l’astinenza dai cibi si è generalmente ridotta e non comporta particolari sacrifici per il corpo; con molta facilità si eludono presso i fedeli le normative della Chiesa intorno al digiuno quaresimale relativamente al Mercoledì delle Ceneri e al Venerdi Santo e ci si è abbandonati ad un mero accomodamento intorno alle pratiche di mortificazione corporale previste durante la Quaresima, e questo deve indurci a riflettere ulteriormente se consideriamo che in fatto di rinuncia corporale vi sono tante persone che al di fuori della Chiesa si mostrano in grado di affrontare qualsiasi sacrificio sotto qualunque condizione, stato e a qualsiasi età. Più che una serie di esortazioni pastorali da parte delle autorità ecclesiastiche, sarebbe da reimpostare in ciascuno di noi una disciplina personale fondata sulla responsabilità e sulla consapevolezza, che ci induca a valorizzare il digiuno e l’astinenza come elementi che esprimono davvero nell’esteriorità la nostra appartenenza a Cristo nella Chiesa e che ci inducano liberamente e con somma spontaneità alla condivisione dei patimenti di Colui che noi consideriamo come il nostro Redentore.

  In tal senso, non sarebbe neppure fuori luogo se al giorno d’oggi, viste le mutate condizioni culturali e le differenti impostazioni di vita, non sarebbe fuori luogo se si insistesse sul digiuno in quanto rinuncia mortificante e decisa di qualcosa che appartiene alle nostre preferenze e che è oggetto costante della nostra scelta commerciale. Saremmo per esempio ancora più mortificati e imporremmo anche molte più umiliazioni a noi stessi se optassimo di rinunciare a qualche sigaretta giornaliera (il cui corrispettivo in euro sfamerebbe milioni di persone!!), a qualche spesa voluttuaria che rientra nelle nostre abitudini e che non di rado si confonde anche con l’essenziale o a qualche sollazzo che è diventato facente parte dei nostri ambiti di scelta. Qualora non si potessero seguire le disposizioni pastorali correnti, compenseremmo di certo di gran lunga tale lacuna attraverso queste forme di rinuncia che interpellano le nostre abitudini radicate e i nostri vizi.

  Il digiuno quale mortificazione dei sensi impone anche che ci si astenga da determinate visioni di film e spettacoli scadenti, che ci si astenga dal parlare spropositatamente e senza attribuire senso a quanto diciamo, con il rischio di incappare nel rischio di offendere o di causare malignità nell’ambiente che ci circonda o che si smettano determinate usanze e costumi in tutti i casi sempre lesivi alla morale propria e degli altri. 

  Proprio perché partecipativa dell’espiazione di Cristo sulla croce e coefficiente di condivisione reale della nostra vita con quella del Redentore, qualsiasi forma di digiuno e di astinenza se realizzata con cognizione di causa e scevra da qualsiasi esibizionismo o altezzosità deve per forza comportare il rinnovamento personale della propria persona in vista del cambiamento radicale della società e del mondo e pertanto deve aiutare a finalizzarci nel bene e nella realizzazione della carità effettiva. Condizione della validità del digiuno è infatti che essa sia finalizzata all’amore e che in se stessa comporti anche una pratica di bene da affinarsi alle rinunce. Il digiuno in effetti è un atto d’amore perché va considerato in vista del bene di se stessi e in conseguenza degli altri, quindi verso l’amore deve condurre e dall’amore stesso non può non trarre lo sprone.

 

2.6 La fuga dal mondo

 

 L’ascesi e la penitenza suppongono tuttavia l’altra componente eremitica che prende il nome di fuga dal mondo che in se stesso è sempre stato oggetto non poche interpretazioni: come conciliare infatti il disprezzo del mondo, che in effetti ci proviene dal Vangelo, con il valore del mondo in quanto realtà oggettivamente apprezzabile perché facente parte della sfera della creazione genuina? Come combinare la necessità di fuggire dal mondo con quella di amare il mondo perché in se buono? Gesù afferma espressamente:  Giovanni afferma espressamente: “Non amate il mondo né le cose che sono nel mondo. Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; perché tutto ciò che è nel mondo è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi, superbia della vita; tutto ciò non viene dal Padre, ma dal mondo.” (1Gv 2, 15 – 16). Il mondo viene anche reso oggetto di repulsione da parte di Gesù, quando afferma: “Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo.” (Gv 16, 33) e altrove: “Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché io attesto che le sue opere sono cattive.” (Gv 7,7); “Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me”(Gv 15, 8). Il mondo sembra essere presentato come una realtà ostile all’uomo e al suo vissuto e sembrerebbe che ci si debba astenere dal vivere il presente e avere una visione disfattista della storia. Tuttavia occorre osservare che nello stesso ambito scritturale il mondo non assume un solo significato ma varia il suo senso secondo le situazioni storiche particolari, le caratteristiche di ogni momento, le situazioni transitorie. Sicchè il mondo può essere inteso come l’universo (At 17, 24; Gv, 1, 3) come pure l’ambiente di vita dell’uomo o anche il mondo in cui vivono gli uomini.[105] Ne deriva che il mondo può avere diverse sfaccettature a seconda di come lo si viva e come ci si dimeni all’interno di esso; pertanto il mondo può benissimo essere inteso come il carattere di corruttibilità umana che si oppone al creato e alla realtà voluta da Dio. 

 Tale concezione vuole che il mondo sia non una “somma delle volontà perverse, bensì un’entità provvista di una certa unità il cui spirito avvolge e penetra istituzioni e singoli individui in sé buoni: così inteso, il “mondo” è presente in ogni società e la Chiesa stessa è sempre minacciata dal suo influsso.”[106] Il concetto riprovevole di mondo da cui è legittimo anzi conveniente fuggire è pertanto quello di mondo inteso come peccato

Il mondo che si scredita quindi non è quello delle origini adamitiche in cui Dio passeggia assieme all’uomo, ma il sistema decaduto e corrotto dall’ostinazione dell’uomo ad opporsi a Dio.  Oltretutto occorre notare che Gesù, pur affermando in più parti la pericolosità di questo mondo, non impone in alcun modo che de esso si fugga: anche durante le persecuzioni egli invita  a fuggire da una città all’altra (Mt 10, 23) ma non fa menzione a che i discepoli debbano rifugiarsi in un luogo solitario. La stessa comunità cristiana non intenderà mai fuggire dalla storia e abbandonare il campo della lotta, bensì persistere con coraggio contro il male e le vicissitudini in negativo e del resto chi ha scelto la fuga materiale dal mondo nel deserto non lo ha mai fatto mosso da freddezza e ritrosia nei confronti della realtà presente, anche se non di rado si nota una dicotomia fra il mondo attuale e quello dell’eone parusiaco: si è sempre deliberato di allontanarsi dal mondo per amore di Dio e per dedicare esclusivamente allo spirito la giusta prevalenza e pertanto ci si è dati alla fuga dai vizi e dai piaceri terreni sempre come conseguenza della totalità dell’amore verso Dio. Abbandonare il mondo è in definitiva una deliberazione di rinuncia a quanto di per se viene considerato non biasimevole ma apprezzabile. Una rinuncia e non una pusillanime fuga propriamente detta poiché chi si allontana conosce bene ciò da cui si allontana e vive il proprio isolamento anche in funzione delle cose che sta abbandonando.  La fuga dal mondo pertanto non può che corrispondere alla presa di distanza dalla corruttibilità e dall’effimeratezza di questa vita presente, soprattutto considerando che la realtà del mondo è passeggera: “Quelli che usano i beni di questo mondo (li usino) come se non ne usassero a fondo, poiché passa la scena di questo mondo” (1 Cor 7, 31) ragion per cui il cristiano è chiamato a vivere in questo mondo senza tuttavia lasciarsi coinvolgere dalla sua precarietà e nefandezza: “Siete nel mondo ma non del mondo”

  Il concetto di fuga dal mondo in Francesco è stato analizzato proprio in base alle spiegazioni teologiche del tipo ora presentato, che portano a confrontare i testi evangelici con gli enunciati delle varie Regole dell’Ordine minimo[107]. Esso non coincide con una svalutazione della realtà terrena, ma nel tentativo di procacciare il criterio valido per elevare e innalzare il mondo stesso dalla perdizione alla gloria. Ci si allontana non già dal mondo in quanto tale, poiché esso rientra nell’ordine della realtà creaturale che in se stessa non è deprezzabile  ma dal costitutivo di negatività di cui il mondo è caratterizzato e precisamente dalla struttura di peccato e dalla miseria morale dilagante.

 

2.7 La preghiera

 

  Sempre la nota dei vescovi sopra riportata a proposito del digiuno e dell’astienaza tende a sottolineare un dato che non va trascurato nella nostra vita spirituale: “In tal senso, qualsiasi pratica di rinuncia trova il suo pieno valore, secondo il pensiero e l’esperienza della Chiesa, solo se compiuta in comunione viva con Cristo, e quindi se è animata dalla preghiera ed è orientata alla crescita della libertà cristiana, mediante il dono di sé nell’esercizio concreto della carità fraterna.”[108]

  Perché infatti il digiuno acquisti valore e non si riduca ad una indegna svalutazione del proprio corpo del tutto gratuita e immotivata, occorre che si associ innanzitutto allo spirito di orazione che induca ad accrescere l’elevazione a Dio ricercato al di sopra di ogni cosa.

  L’orazione è sempre stata una dimensione irrinunciabile coltivata dallo stesso Cristo che in moltissimi casi della sua vita pubblica abbandonava il proprio ministero per ritirarsi nel deserto laddove coltivava intensamente i suoi rapporti personali con il Padre (Mc 1, 35; Lc 9, 18) e in modo particolare nella preghiera sacerdotale Gesù affida al Padre l’umanità perché si associ alla stessa comunione divina che lega Padre e Figlio: “Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi” (Gv 17, 11); “Io prego per loro e per quelli che per la loro parola crederanno in me. Cristo però ha anche insegnato il valore della preghiera e lo ha inculcato agli apostoli, che domandarono: “Insegnaci a pregare” (Lc 1, 11)ottenendo come risposta immediata l’esortazione previa che la preghiera sia innanzitutto un fatto di umiltà: non usare troppe parole risolvendo di essere ascoltati solo nella misura in cui si proferiscono monologhi; pregare nella solitudine della propria stanza per evitare la vanagloria da parte degli altri; e soprattutto Gesù inculca la preghiera come atteggiamento di lode al Signore e al contempo di affidamento alla sua Volontà così come si nota nella formula matteana del Padre Nostro, che è strutturata secondo una primaria dimensione del riconoscimento del Nome di Dio e dell’aspettativa del Regno e del realizzarsi del suo volere su questo mondo, il riconoscimento della priorità di Dio su ogni cosa e la presa di coscienza che l’uomo smarrisce se stesso quando dimentica Dio; vi fa seguito la seconda dimensione nella quale noi si rivolge richiesta a Dio la richiesta di quanto è indispensabile alla nostra vita materiale e spirituale: il pane ossia il sostentamento di tutti i giorni e la preservazione dal male e dal peccato di cui intanto si fa’ richiesta. (Mt 6, 1-18).[109] In parole semplici, potremmo dire che pregare è colloquiare con il Signore e instaurare un rapporto intimo con lui che valica di gran lunga tutti gli automatismi pretesi fra preghiera ed esaudimento.

  Nella vita di San Francesco la preghiera è associata molto spesso al digiuno e su questa prospettiva ha anche impostato il voto di vita quaresimale: “il voto di vita quaresimale è intimamente legato nella sua spiritualità alla vita di preghiera; lui stesso lo proverà restando, nei suoi momenti intensi di contemplazione, per più giorni senza mangiare… Alcune volte è capace di restare 8 o 15 giorni e perfino 3 settimane in orazione e contemplazione, astenendosi da ogni nutrimento e questa vita di preghiera la vuole anche dai suoi frati, quotidianamente, notte e giorno.”[110] In alcune occasioni restava isolato nella sua cella conventuale per parecchi giorni o settimane senza dare alcun segno di vita, al punto che i confratelli, timorosi che fosse deceduto improvvisamente nel sonno o per qualche altro inconveniente, si appostano dietro la porta tentando di chiamarlo o di attirare la sua attenzione; finchè lui dall’interno della stanza non emetteva un rumore o un segno che lasciasse intuire che non era morto. Il che lasciava tutti gli altri frati nella tranquillità. La preghiera contemplativa e ritirata aveva insomma in Francesco degli spazi prolungati e nel corso delle sue giornate, e in effetti la sua partecipazione all’immolazione di Cristo non poteva escludere alcuna delle due componenti della vita ascetica che sono sempre correlate fra di loro in un simbiotico binomio. Nella vita ritirata della grotta possiamo supporre che egli abbia dato spazio alla contemplazione e alla meditazione, mentre nella sua vita pubblica lo si è visto coltivare varie forme di preghiera, senza trascurare né tantomeno svilire alcuna delle componenti dell’orazione comunemente conosciute e praticate: ora pregava rivolgendosi all’intercessione della Madonna e di San Francesco di Assisi, così come si riscontra negli anni della sua infanzia; ora si intratteneva in orazione davanti all’Eucaresia dandosi alla contemplazione adoratrice profonda del Sacramento, ora ricorrendo anche alle comuni usanze di preghiera popolare in uso presso la gente del luogo a cui apparteneva. Ma il fatto che avesse avuto predilezione per Cristo penitente e martirizzato o che avesse contemplato più spesso la passione di Gesù Cristo nostro Salvatore lascia intendere che prescindendo dalle devozioni speciali alla Vergine, al Santo Assisiate e agli altri Santi che potevano aver interessato il suo habitat familiare, egli intendesse anteporre in ordine di importanza il solo Signore Dio e il suo Figlio Gesù Cristo come oggetto primario di preghiera e di riflessione. La preghiera rivolta direttamente a Dio era quella che si svolgeva con maggiore fervore e sollecitudine al punto che non di rado produceva anche interventi straordinari da parte della grazia: “Le sue preghiere e le sue invocazioni a Dio erano piene di tanto vigore e di tanta virtù, che gli infermi ne venivano completamente risanati; e alcuni, morti nel

 corpo, e parecchi nell’anima, venivano risuscitati.”[111]

  Senza nulla togliere comunque alle altre forme di preghiera, senza dubbio Francesco ha attribuito maggiore importanza e validità alla preghiera contemplativa, scaturita dalla grotta, coltivata in tutto il suo stile di vita da cui è permeata e riportata come caratteristica fondamentale nelle Regole. Morosini analizza la preghiera contemplativa di Francesco alla luce dei connotati di contemplazione propri della del Medio Evo, giacchè lo spirito di orazione del Paolano riecheggia questa dimensione epocale mostrando non pochi affinamenti ad essa; in più egli individua determinate condizioni basilari per cui secondo Francesco la preghiera possa ritenersi reale e non fittizia.[112]

  Secondo la mentalità spirituale del Medio Evo, la preghiera contemplativa eleva l’uomo al di sopra di se stesso e lo conduce a trascendere la propria personale condizione limitativa[113] per superare la limitatezza del corpo ai fini di condurre il soggetto all’unione definitiva e pacifica con Dio; detta visione di Dio faccia a faccia (1 Cor 13, 12) noi la troveremo solo alla fine del nostro tempo presente, ossia nella visione beatifica celeste, ma nella preghiera possiamo già pregustarne il gusto, questa tuttavia realizzata non senza il distacco dalle cose terrene e dalla generale corruttibilità del mondo. E’ appunto questa una delle condizioni della preghiera secondo il Fondatore dell’Ordine dei Minimi: la preghiera rapportata al digiuno che è ritenuta dalla Regola “buona cosa” per gli effetti garantiti della sublimazione della carne e della sottomissione dei sensi allo spirito (questi più volte citati in questa sede). La preghiera è quindi molto fruttuosa quando è accompagnata dalla mortificazione corporale per l’aiuto che essa apporta alla contemplazione del divino su questa terra e va introdotta anche quando il corpo si sta rifocillando durante la refezione attraverso opportune meditazioni spirituali; altra condizione molto vantaggiosa perché si dia possibilità fattiva all’orazione è anche il silenzio che favorisce il raccoglimento e la concentrazione sulla Parola di Dio e sul mistero del Signore e che viene valorizzato molto spesso da San Francesco anche nel contesto della vita fraterna in comunità: sebbene egli sia stato descritto come un uomo capace di interazioni sociali e di compagnia con i suoi compaesani, non ha omesso di coltivare la moderazione nelle parole e il raccoglimento che favorisce la preghiera, forse non sempre omettendo loquacità ma adoperando la moderazione nell’uso della lingua. Anche la IV Regola impone ai frati di coltivare il silenzio perché efficace a favorire il raccoglimento e ad evitare il troppo parlare che non è mai esente da colpa.[114]

  Accanto a queste condizioni vi è anche la necessità della purificazione interiore che impone anche il silenzio sotto molteplici altri aspetti della vita spirituale, l’umiltà e la libertà dalle preoccupazioni temporali, poiché l’attaccamento eccessivo a se stessi, al denaro e ai possedimenti si rivela sempre dannoso al buon andamento dell’orazione. La preghiera deve essere fatta instancabilmente e con assiduità e va svolta nella “libertà”, ossia nel distacco da qualsiasi ostacolo che possa lenirne la portata. Una delle pratiche monastiche che appartiene al patrimonio spirituale tramandatoci dal Medio Evo è la cosiddetta “Lectio divina”, riguardante l’assiduo scrutamento del testo della Parola di Dio; seppure non se ne tratta esplicitamente nei testi delle Regole e negli scritti sulla vita del Paolano è da supporsi che essa sia stata quanto meno considerata dalle comunità dell’Ordine che non omettevano certamente di risaltare qualsiasi procedimento favorevole all’esaltazione dello spirito e al conseguimento della suddetta visione beatifica previa.

  In ogni caso, guardando allo stesso atteggiamento di Francesco e al portamento nonché al tratto che gli viene sempre attribuito, possiamo dedurre che nella vita di questo Santo la preghiera doveva costituire una forza trainante per ogni situazione giacchè doveva insinuargli mitezza, calma e risolutezza di fronte alle difficoltà e alle avversioni anche da parte di altri. La calma e la concentrazione che derivano dalla preghiera intensa e profonda aiutano a vedere i problemi e le sfide di tutti i giorni con rinnovato slancio e ottimismo, oppure scongiurano il pericolo delle ansie e delle istintività che potrebbero indurre ad accrescere la portata delle difficoltà e degli imprevisti, non per niente il contemplativo mostra sempre sensibilità e mansuetudine nelle circostanze di lotta e nelle dure prove pur non estraniandosi dal quotidiano. Lottare per vivere è richiesto ad ogni uomo che si rispetti, tuttavia gli strumenti della lotta possono essere molteplici e di varia natura; quelli adoperati dagli uomini atti alla contemplazione e alla preghiera intensa producono le condizioni per cui ogni situazione possa essere padroneggiata e che non si debba sottostare agli eventi e che si mostri padronanza di se stessi nell’autodominio.  Il ricorso frequente all’orazione associata al lavoro e alle rinunce corporali, alla stregua di tutti gli altri eremiti contemplativi, non poteva non suscitare in Francesco la disposizione alla pazienza e all’accoglienza dei patimenti da parte del mondo che lo circondava. E del resto lo si nota anche nella lettura attenta di moltissime vicissitudini ed esperienze della sua vita, in cui dovette affrontare per esempio le ostinazioni delle varie Autorità Ecclesiastiche che a più riprese negarono l’approvazione della Regola o il malcontento di non pochi confratelli della sua congregazione che lamentavano l’eccessiva austerità dei rigori e delle mortificazioni previsti dai medesimi statuti.

  Non saremmo tuttavia pienamente ottemperanti nella delineazione del tema della preghiera in San Francesco se non ci soffermassimo sui connotati della preghiera contemplativa all’interno della grotta fra le montagne di Paola. Come avrà vissuto Francesco l’esperienza orante all’interno dello speco? Quali risvolti avrà incontrato e con quale intensità avrà vissuto il suo rapporto con Dio all’interno della grotta paolana? Che lui abbia esperito la familiarità con Dio e ne abbia goduto i vantaggi nel pieno della sua adolescenza è innegabile, ma sarebbe molto costruttivo oltre che utile che ci soffermassimo con attenzione sul valore della preghiera di Francesco all’interno della grotta.

  Personalmente ritengo che si debba considerare innanzitutto la seguente espressione biblica: Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti” Ef 4, 6 . Esso attesta innanzitutto la onnipresenza divina totalizzante che è trascendente mostrando tuttavia immediata immanenza poiché Dio è Ente supremo che sorpassa ogni realtà circoscritta e allo stesso tempo è presente in ogni cosa, vale a dire in ogni elemento del cosmo e nelle molteplici contingenze. La presenza di Dio è attiva e dinamica in quanto sostiene il creato e lo vivifica mantenendolo in essere e in più è una presenza incidente anche se misteriosa che va scoperta e valorizzata, essendo egli anche causa prima di tutte le cose che rivela il suo agire e operare per mezzo di cause seconde. Dio è presente soprattutto nell’uomo, creatura posta in essere a sua immagine e somiglianza e soprattutto Egli pur restando immutabile nella sua divinità ha scelto di farsi Uomo per qualificare questa sua presenza nell’uomo. Se Dio è presente in tutte le cose, ciò vuol dire che si mostra in primo luogo nella dimensione creaturale sicchè si può ravvisare la presenza di Dio attraverso gli elementi della natura. Il Concilio Vaticano I affermava che Dio può essere conosciuto a partire dalle cose create, mentre il libro della Sapienza ci rammenta che a partire dalle creature si può risalire al Creatore (Sap 11, 21-20), ragion per cui nella misura in cui noi contempliamo la creazione ci rendiamo partecipi della presenza di Dio.

  Ora appunto la preghiera è la risposta umana a questo presenziare e agire ineffabile di Dio, la sua adesione spontanea, libera e fiduciosa a che Dio si faccia trovare nel silenzio e nell’incontaminatezza delle cose.

  Contemplare la natura lo si può fare nel silenzio e nell’abbandono, nella solitudine e nell’immersione nella realtà degli elementi incorrotti e allo stato puro e genuino, e in moltissimi casi in cui ci si immerge nel creato si riscontra come la natura di per sé mostri la “piccolezza” e la vanità dell’uomo: “Che cos’è un uomo perché te ne ricordi, un figlio di uomo perché te ne dia pensiero?” Immergersi nella totalità degli elementi creati è esaltante perché li si riscontra in effetti come creati e contingenti nonché in necessari e ci si scopre al contempo appartenenti noi stessi alla totalità degli elementi e appunto la solitudine esalta questa riscoperta. 

  La contemplazione tuttavia non è sufficiente in sé stessa se non diventa preghiera. Di fronte al Dio onnipresente in tutto occorre infatti pregare il che vuol dire ascoltare e conversare nella disposizione di raffronto reciproco.[115] La preghiera di San Francesco nella grotta ha assunto pertanto il significato della corrispondenza alla grazia di Dio e quello di adesione al mistero della sua presenza silenziosa ed efficace anche nello stesso spirito umano: la natura selvaggia che lo circondava rendeva conscio il giovane frate della presenza di Dio e lo conduceva a tesserne le lodi nella contemplazione della varietà degli elementi; attraverso la rinuncia a se stesso e la spoliazione fino al livello di estrema umiltà e sottomissione scaturita dai digiuni e dalla vita parca e sobria, Francesco rendeva culto a Dio sentendolo presente nella sua persona ivi compreso il suo stesso corpo.

  Poiché si è detto che noi portiamo sin dal battesimo le impronte della Trinità, potremmo anche affermar che nell’annientamento di se stesso che Francesco coltivò nella grotta egli dovette esperire l’iniziativa divina del Padre che gli si manifestava nel silenzio e nella solitudine invitandolo a configurarsi al suo Figlio Gesù Cristo nello specifico della sua passione redentrice e del suo riscatto salvifico dei peccati dell’umanità e rendersi pertanto compartecipe della redenzione e della salvezza del mondo; tale associazione avveniva in forza dell’assistenza dello Spirito Santo poiché nello Spirito e sostenuto da Esso Francesco realizzava il tutto della grotta. Era stato fra l’altro lo stesso Spirito Santo ad indurre questo giovanissimo penitente nell’antro così come aveva già sospinto Gesù nel deserto e lo stesso Spirito gli permetteva adesso di intuire la sua scelta e la sua impostazione di vita in quella scomodissima dimensione. Sempre lo Spirito Santo indurrà poi Francesco all’accoglienza semplice e fraterna della gente che un po’ alla volta comincerà ad affluire nella grotta; lo stesso Spirito suggerirà la realizzazione del primo romitorio e la formazione del primo Convento e finalmente sempre in forza dello stesso Spirito Francesco saprà affrontare senza problemi la dimensione di vita cenobitica e apostolica.

 

2.8La carità

 

   Alle suddette condizioni che Francesco pone affinché la preghiera sia autentica e scevra da ogni esibizionismo e vanagloria, se ne aggiunge un’altra che anche nella Scrittura viene dichiarata urgente e irrinunciabile anche al di sopra delle altre virtù che sono destinate a perire: la carità.

  E in effetti non avrebbe alcun valore e non comporterebbe alcun vantaggio per la Chiesa che si praticassero molteplici opere di penitenza, preghiera, mortificazione corporale e autodisciplina se  esse non offrissero il trasparente risultato dell’amore reale poiché risulterebbero assimilabili a tanti altri espedienti di autolesionismo del corpo che vengono normalmente adottati anche con maggiore intensità presso non pochi movimenti politici e ideologici. Se la penitenza equivale ad un processo di conversione che suggerisce la mutazione radicale della propria vita a partire dalla cultura, mentalità e impostazione di pensiero che rinunciano al male per orientarsi verso Dio, tale processo di rinnovamento interiore deve trasparire in opere che ricalchino l’avvenuta penitenza, ossia da opere di carità effettiva e inequivocabile. Su questo aspetto della vita spirituale è molto tassativo Giovanni che nel corso della sua prima Lettera rivendica la coerenza nelle nostra azioni con la nostra fede in Dio e in Cristo: chi non ama non viene da Dio e non riconosce il Figlio di Dio Gesù Cristo, quindi la sua fede è fittizia o apparente. Piuttosto, non amare e odiare il proprio fratello e non osservare i comandamenti equivale a provenire dal diavolo, poiché questi è peccatore fin dal principio(1 Gv 3, 1 – 8). Sempre secondo Giovanni, quindi “chi dice di dimorare in Cristo deve comportarsi come egli si è comportato” (1 Gv 2, 6) e poiché Lui ha amato concretamente senza chiusure né riserve, occorre che noi ci amiamo non a parole ma con i fatti (1 Gv 3, 16 – 18); Giacomo ci rammenta che la nostra fede senza le opere è inesistente, descrivendo la concretezza delle opere quali concreti atti di amore, di generosità e di accoglienza: “Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano 16 e uno di voi dice loro: "Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi", ma non date loro il necessario per il corpo, che giova?”  (Gc 2, 14 – 26) e lo stesso Gesù Cristo indica che l’amore concreto delle opere non può esimersi dall’eroismo e comunque non può essere vincolato dalla mediocrità (Lc 3, 11; 14, 13).

Ma prima ancora che nelle opere e nei singoli atti la carità qualifica un attitudine personale legata ad uno specifico modo di essere previo, che si riscontra nel cap 13 della Prima Lettera di Paolo ai Corinzi che il Messale proprio dell’Ordine dei Minimi riporta come Seconda Lettura liturgica nella giornata della Festività di San Francesco di Paola e che sottolinea addirittura che la carità prescinde perfino dalle stesse opere di bene, poiché queste potrebbero essere fatte anche indipendentemente a questa virtù: “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare tutte le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla.”(vv. 1-3). La carità qualifica di fatto innanzitutto l’essere di una persona che è anteriore all’agire e che qualifica le azioni stesse: il testo di Paolo prosegue infatti affermando che chi ama è paziente, benigno, non si adira, non manca di rispetto, non tiene conto del male ricevuto, è speranzoso, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta;  qualità, queste,  che spiegano da se stesse l’amore cristiano come prerogativa ben lungi dal possedere le fattezze della filantropia  che non di rado può sottendere anche a un malcelato egoismo o esibizionismo e comunque non ha una durata che limitata. Piuttosto si tratta dell’amore di cui siamo stati resi noi stessi oggetto da parte di Dio che ha la sua massima espressione nell’immolazione di Cristo per il riscatto dell’umanità: l’uomo, conosciuto e prediletto da Dio sin dall’eternità e da Questi reso oggetto di un determinato progetto d’amore (Ger 5, 1; Sal.22,10-11; 139, 13-16) viene ulteriormente reso oggetto di singolare benevolenza divina in Cristo, nella sua opera di redenzione e soprattutto nella sua immolazione sulla croce. La differenziazione fra l’amore cristiano e la filantropia umana risiede pertanto in un solo uomo che potremmo anzi definite un Evento: Gesù Cristo. Secondo la bellissima espressione di un esegeta, “la parola amore abbisogna sempre di un dizionario e per i cristiani il dizionario è Cristo Gesù.[116] La carità non può che scaturire dalla radicale fede in lui e nella nostra incorporazione a Lui e nell’adesione al suo progetto di amore e di Salvezza, poiché se in Cristo egli ci ha amati, è necessario che ci amiamo gli uni gli altri pena il rischio di non mostrare la nostra appartenenza a Lui (Gv 15, 12) e per ciò stesso assume le caratteristiche di universalità ed instancabilità, poiché va corrisposta indistintamente al fratello immediatamente vicino come al nemico, poiché Egli non ha esitato a donare la propria vita per tutti e a pagare con il sangue il prezzo dei peccati dell’umanità intera, specialmente quella dispersa e abbandonata alle proprie colpe. Nella parabola del “buon samaritano” Gesù oltre che a delineare il compendio della legge universale che consiste nell’amore disinvolto verso Dio, verso il prossimo e verso se stessi (Dt 6) offre un concetto di  “prossimo” del tutto nuovo e inaspettato per la cultura a lui contemporanea che lo aveva condannato alle ristrettezze, considerando come prossimo il solo connazionale, il membro di uno stesso popolo o l’appartenente a un solo gruppo o movimento religioso o politico.

  Il concetto di “prossimo” si estende infatti d’ora in poi anche al nemico e a chi è sempre stato oggetto del nostro biasimo e della nostra riprovazione, poiché l’amore di Dio Padre, che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti e fa sorgere il sole sui malvagi e sui buoni (Mt 5, 43 – 48) e attesta al carattere di illimitatezza e di universalità con il quale deve essere inteso l’amore cristiano che lo stesso Paolo qualifica anche come amore eterno che supera nel tempo anche la fede e la speranza. Nel termine “prossimo” inoltre vi è un duplice invito a considerarci noi stessi prossimi degli altri in prima persona proprio come Gesù invita per implicito a vedere il prossimo “di colui che incappò nei briganti” e non già il prossimo di colui che viene assistito; e al contempo ci invita a vedere nell’altro il prossimo da soccorrere e aiutare senza reticenze o restrizioni.

  Accogliere il prossimo anche sconosciuto ma calcolato come presenza dello stesso Signore ch bussa alla nostra prossima equivale ad accogliere Dio stesso e ottenere la ricompensa di tanti benefici insperati come nel caso di Abramo che accoglie i tre visitatori alla quercia di Mamre senza avvedersi che in essi vi è il Signore e i suoi angeli che doneranno a lui e alla moglie Sara la gioia di un bambino nonostante la tarda età (Gen 8, 1- 15); oppure come nel caso della vedova di Zarepta che ottiene la resurrezione da morte del proprio figlio per avere avuto carità attenta nell’accoglienza del profeta (1Re 17,10-16); o ancora nel caso della Sunamita che accogliendo nella propria casa Eiliseo identificato da lei come “uomo di Dio” ottiene sia la predizione di un bambino sia che questi venga miracolosamente risuscitato da morte (2Re 4, 8-3). A proposito di quest’ultimo caso vi sarebbe da dedicare un capitolo a parte nel tratteggiare gli elementi di comparazione fra la semplicità e lo stile di vita di Eliseo che accoglie la donna nel monte Carmelo, ossia nella solitudine tipica di un uomo di Dio, e il nostro Francesco di Paola, le cui caratteristiche non sono del tutto differenti. E anche nel compiere simili fenomeni di resurrezione dai morti, lo stesso Francesco si appella all’amore di Dio che è movente delle sue stesse azioni e con il quale adesso agisce senza tentennamenti, sperimentando egli stesso e rendendo discepoli i suoi interlocutori che la carità è davvero il vincolo della perfezione umana perché solo chi ama è veramente perfetto(Col 3, 14) .

  Non per niente la carità è il fine ultimo anche della consacrazione religiosa, visto obiettivo della vita religiosa è il conseguimento della carità perfetta nella professione dei consigli evangelici della Povertà, della Castità e dell’Obbedienza[117] e anche nell’istituzione di San Francesco di Paola emerge come primario lo scopo della vita religiosa: abbiamo infatti notato in alcuni episodi della sua vita che l’esercizio della carità operativa assumeva gli stessi connotati d’importanza degli altri elementi della vita religiosa e anzi diventava in certi casi l’emblema di una vita religiosa vissuta in pienezza e con entusiasmo, come ad esempio durante l’imperversare della siccità a Spezzano Calabro che impegna i frati oltre che alla costruzione del convento anche e soprattutto alla donazione di parte delle elemosine per fini caritativi e di bene. Destinare le elemosine di cui erano beneficiari i frati stessi a terzi per opere di bene era costitutivo di quella sollecitudine che si richiede nella vita cristiana e senza la quale il cristianesimo stesso non sussiste; come pure la continua a paziente disponibilità di Francesco nell’offrire ad altri una buona parola o un buon consiglio e farsi portatore della straordinaria grazia di Dio nei miracoli atti a risollevare gli ammalati e i moribondi rimarcano in Calabria e in Francia lo stesso percorso di amore del Padre tracciato da Gesù in Galilea e in Giudea e richiamano di fatto al valore evangelico della carità e dell’amore al prossimo.

  E soprattutto dalla grotta e dalla continua preghiera solitaria associata ai digiuni Francesco aveva certamente compreso che Dio è carità infinita nei confronti dell’uomo e che nessun altro comandamento allora si impone se non vivere nell’amore nelle impronte dell’avvenuto amore divino nei nostri confronti. La carità però è l’elemento che qualifica l’uomo già nel suo essere prima ancora che nella sua azione e infatti l’Anonimo ci ricorda che Francesco “In tutte le sue azioni aveva sempre sulla bocca la parola carità, dicendo: ‘facciamolo per carità; ‘andiamo per carità’! E questo non ci deve affatto stupire: la bocca parla secondo ciò che c’è in cuore, cioè: chi è pieno di carità, non può parlare se non di carità.”[118] Sono a mio giudizio gli ultimi versi citati dal discepolo coevo che rendono piena testimonianza dell’autenticità dell’amore di Francesco: vi si considera infatti come ancora prima delle parole proferite con le labbra vi sia il cuore di un uomo redento e formato che ha esperito in prima persona l’amore di Dio e se è proprio l’Anonimo che ci esorta ad omettere ogni stupore perché la lingua parla secondo quello che risiede nel cuore, certamente ciò lascia intendere che la sua testimonianza è veritiera perché è mista di somma ammirazione verso il suo Fondatore che inequivocabilmente viveva siffatte qualità di amore appellandosi a Dio in ogni situazione e in ogni cosa dovesse chiedere, poiché quello che potremmo ottenere dalla nostra domanda è in ogni caso dono di Dio, quindi va chiesto appunto “per carità”. 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3

Altri aspetti correlati della spiritualità di San Francesco

 

 

  La spiritualità penitenziale di San Francesco di Paola è fondamento di tutti gli altri aspetti della sua vita interiore, poiché il valore della conversione lo condusse senza ombra di dubbio a dare consistenza a quelli che erano stati da sempre i suoi sentimenti di uomo devoto e religioso nei confronti del Signore Gesù Cristo, dell’Eucarestia e della Vergine Maria che dall’esperienza della grotta acquisivano sempre più significato in rapporto al significato della salvezza. In altre parole, nello sviluppo della sua adolescenziale dimensione da uomo eremita e penitente, Francesco trovava in un certo qual modo una sorta di “scuola teologica” che gli permise di attribuire maggiore fondamento ai suoi innati sentimenti di devozione e di amore a Gesù e alla Madonna come pure ad ogni altro aspetto della sua vita spirituale. Cosicché, dopo aver esperito in prima persona la necessità di lasciarsi amare e plasmare da Dio e a Lui rivolgersi costantemente verso un itinerario di conversione che lo conducesse al secundum Deum, era in grado di riscoprire nella festa del Natale il valore dell’Incarnazione di questo Dio nel suo Verbo come pure nella passione del Venerdì Santo o nello stesso crocifisso il rivelarsi della potenza salvifica di Dio nell’immolazione del Suo Figlio, nelle parabole e nei miracoli che aveva appreso dai vangeli il dispiegarsi del Regno di Dio nelle parole e nelle opere di Gesù Cristo Salvatore e di conseguenza poteva attribuire al mistero dell’Incarnazione e della Redenzione anche una somma importanza al ruolo della Madre di Dio.

 

 

3.1 L’amore al Signore Gesù Cristo

 

    Come avviene nella vita di tutti gli eremiti, l’amore di San Francesco verso il Signore Gesù Cristo si configura sotto l’aspetto della partecipazione ai patimenti e alle sofferenze di redenzione e di riscatto dei nostri peccati, secondo la pedagogia paolina già accennata, che riportiamo adesso nell’intera percope: “Fratelli, sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa.” (Col 1, 24). Analogamente all’apostolo che soffriva le catene di carcerazione per la causa del Vangelo accettandole come compartecipazione ai patimenti redentivi e salvifici della croce di Cristo, ai fini di avvantaggiare con la medesima vita sacrificale la comunità ecclesiale che egli riconosceva come corpo dello stesso Signore perché costituita da molte membra compaginate e interponesse in unione simbiotica, che formano tutto un organismo con il loro capo (1Cor 12, 12 – 14; Col 1, 18), così anche nelle intenzioni di Francesco Eremita e penitente dentro e fuori dalla grotta vi era la compartecipazione alle sofferenze di Cristo nel flagello dei digiuni, delle restrizioni fisiche e alimentari e della generalità della vita ascetica che gli meritava di partecipare alle stesse sofferenze del Salvatore il vista del riscatto dei peccati propri e dell’umanità.

  Se una delle caratteristiche della penitenza consiste nella riconoscenza franca e consapevole del proprio peccato e nella conseguente scelta di novità di vita, in Francesco la coscienza peccaminosa si estendeva anche alla condizione sociale dell’intera umanità:egli considerava cioè l’imperversare della struttura stessa del mondo come struttura di peccato e di morte e si sentiva sollecitato così a rendere le sue membra compartecipative del riscatto di Cristo perché l’umanità potesse ottenere la salvezza.

  Nelle sofferenze e nei patimenti ordinari, quando questi sono vissuti quale volontà di associarsi alla croce di Cristo, vi è la realizzazione della salvezza oltre che di se stessi anche degli altri fratelli e l’accoglienza dell’avversità conduce a rendere effettivo il riscatto di molti.

 

3. 1. 1 Un importante riferimento: Fil 2, 6 - 11

 

 San Francesco riscontrava che il sacrificio di Cristo per l’umanità si era realizzato prima ancora che nell’autoconsegna sulla croce anche e soprattutto nella dimensione della Kenosi con cui Egli aveva abbandonato le garanzie di divinità somma e incontrastata per annichilirsi allo stadio di umanità: il sacrificio e i patimenti di Cristo hanno il culmine nell’estremo supplizio della croce, ma si rendono effettivi già nell’Incarnazione e nella vita pubblica di Gesù, avendo Egli scelto una dimensione epocale di vita fra gli uomini priva di garanzie e di benemerenze e avendo assunto fra l’altro una condizione storica fra le più tormentate e difficili per la quale aveva dovuto immolarsi e patire già durante la nascita e Francesco mostrò consapevolezza piena di questa realtà nel vivere la propria vita da penitente e in una certa occasione anche in una determinata lettera che egli scrisse ai Procuratori dell’Eremo di Spezzano: “Ricordatevi della passione del nostro Signore e Salvatore e pensate quanto infinito fu quell’ardore che discese dal cielo in terra per salvarci, che per noi subì tanti tormenti, che subì la fame, il freddo, la sete, il caldo e ogni umana sofferenza, nulla rifiutando per amor nostro e dando esempio di perfetta pazienza e di perfetto amore.”[119]

      Rischieremmo di essere veramente incompleti e faremmo un torto alla spiritualità del Fondatore e dell'intero Ordine dei Minimi se non ci riferissimo immediatamente al testo paolino di  Fil    2, 6 – 11 implicitamente già citato dallo stesso Francesco e che è stato oggetto di riflessione da parte di   tutti gli esponenti della spiritualità monastica e penitenziale come pure elemento costitutivo del  monito alla carità vicendevole; [120] e anche in riferimento all'obbedienza religiosa al Superiore il brano paolino viene sfruttato non di rado per qualificare la necessità della configurazione al Cristo obbediente al Padre mentre rinuncia a se stesso nell'esercizio della volontà di Dio nella persona del correttore di comunità.

 L'obbedienza di Gesù in questo specifico brano paolino ai Filippesi si evince nell'annientamento e nella spoliazione per assumere la condizione di servizio umile e sottomesso. Analizzando il brano, non si possono riscontrare innanzitutto un invito e una affermazione: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono di Gesù Cristo, il quale pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione de servo e divenendo simile agli uomini. Apparso in forma umana umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha esaltato e gli ha dato un nome che è al di sopra di ogni altro nome, perchè nel nome di Gesù ogni ginocchio di pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre.”

  Si esorta ad assumere gli stessi sentimenti di Gesù Cristo, ossia quelli dell'estrema umiltà e mansuetudine del Dio incarnato che rinuncia alla proprie affermazioni di grandezza e alle sicurezze proprie del divino in quantochè, sebbene connaturale e preesistente al Padre, si è abbassato umiliandosi notevolmente alla stregua di uomo fra gli uomini, dimentico della propria condizione di superiorità fra gli elementi, per poi messere innalzato e glorificato da tutti gli esseri che lo proclamano Signore; in parole povere si vuol additare Cristo per essere umili, sottomessi e generosi come lui per poter vivere nell'obbedienza come privazione della propria volontà e attraverso questa via conseguire il premio della gloria. Il testo contiene una triplice affermazione di 1) preesistenza; 2) kenosi; 3) glorificazione[121]: il primo aspetto è evincibile soprattutto dalla “natura divina di Cristo” (greco: morfè Teoù) che attesta sia la somiglianza esteriore e la fattezza, sia la condizione e il modo di essere proprio di una persona. In sintesi si afferma che Cristo è dall'eternità Dio come il Padre e coeterno a Lui. Nell'affermazione “spogliò se stesso” (greco eautòn ekenosen da cui la kenosi) si afferma la profondità del passaggio dalla preesistenza all'elezione di uno stato di precarietà  di chi non considera essere un vantaggio né un motivo di pregio l'essere nelle condizioni di Dio e “spoglia se stesso”, letteralmente inteso come “svuota se stesso”, ossia rende se stesso vuoto e vano per assumere la condizione di servo nell'umanità. Come nota Romano Penna l'affermazione non deve intendersi nel senso della rinuncia definitiva di Cristo alla propria divinità, quanto di un accostamento di essa alle fattezze di precarietà umana e tale intendimento è possibile solo se si concepisce l'ekenosen auton non come abbandono di qualcosa che si possiede ( la divinità) quanto piuttosto di assunzione di quello che ancora non si possiede (l'umanità e la schiavitù)[122], sicchè Cristo è sempre Dio che tuttavia decide di acquisire le condizioni di umiliazione servile. La spoliazione cristica non si limita tuttavia al solo abbassamento dal divino alla nullità sottomessa dell'umano schiavistico, ma anche nel vivere stesso di Cristo la condizione di abbassamento mentre è un uomo terreno: Cristo percorre le tappe più precarie e insignificanti della vita umana dalla culla fino al patibolo della croce che è il culmine della propria spoliazione.

  Nell' autoannientamento di Dio in Cristo risiede la caratteristica portante dell'obbedienza, che viene a darsi non già nelle condizioni di benessere e di piacevolezza, ma nella mera umiliazione del farsi piccolo e di essere reso oggetto di vessazione da parte dei suoi simili: Cristo obbedisce soffrendo la persecuzione umana e rendendosi peccato pur non essendo peccatore (2 Cor 5, 21) nonché povero pur essendo ricco (2 Cor 8, 9) e secondo l'autore della Lettera agli Ebrei “Imparò l'obbedienza dalle cose che patì”. Culmine di questo obbedire servile è stata l'accettazione della morte sulla croce, nella quale Cristo ha offerto se stesso quale Agnello senza macchia all'umanità per il suo riscatto realizzando in pienezza il progetto di salvezza del Padre giacchè la solitudine, l'abbandono e i patimenti che condurranno alla morte dispiegano definitivamente la realizzazione del nostro riscatto.

  Dalla condizione spiacevole di obbedienza alla volontà del Padre nei patimenti la spiritualità monastica ha letto, come abbiamo già notato sopra, le prerogative dell'obbedienza pronta e responsabile alla volontà di Dio quando questa si rende manifesta nella volontà dei superiori, poiché se Cristo si è sottomesso alla volontà del Padre annichilendo se stesso nella privazione e nei patimenti, analogamente anche il monaco non dovrà ricusare di obbedire al proprio superiore accogliendo eventualmente anche gli aspetti spiacevoli di siffatta obbedienza e sottomissione: “.... obbedendo al disegno del Padre, Gesù assume la condizione umana e va incontro alla morte di croce. Per questa sua obbedienza Dio lo ha esaltato sopra ogni altra creatura. L'obbedienza alla volontà di Dio, la quale può esprimersi anche in quella dei superiori, è un elemento fondamentale nella vita di ogni cristiano e di ogni religioso. Con essa si manifesta l'abbandono e la fiducia in Dio, anche quando le circostanze e le persone sono sfavorevoli: proprio in tali momenti, più che in altri, bisogna manifestare che Dio è il fondamento, la roccia, su cui poggia la propria vita. L'obbedienza diviene un atto di fede col quale si accetta umilmente il disegno di Dio anche a costo della vita.”[123]

  Ma tutto questo non è limitativo nella sofferenza di chi obbedisce. Conseguenza infatti dell'annichilimento è l'esaltazione di Cristo nonché la sua glorificazione da parte delle creature che lo acclamano Signore e tale esaltazione la si interpreta sia in termini di grandezza divina dello stesso Cristo in rapporto a se stesso, sia in relazione alla realtà cosmica che canta il suo nome. Accettare la sottomissione obbediente è la garanzia di essere gratificati ed innalzati alla gloria e questo costituisce lo sprone dell'obbedienza cristiana e religiosa come possibilità di conseguimento dei meriti e delle ricompense.

  Riepilogando, in Fil 2, 6 – 11 si riscontra l'invito ad assumere gli stessi atteggiamenti di umiltà di chi pur essendo Dio preesistente dall'eternità non si avvale della sua grandezza divina e della propria onnipotenza come predominio personale, ma acquisisce nonostante il suo essere Dio la fragilità e la debolezza proprie dell'uomo e addirittura dello schiavo per rendersi obbediente in tutto fino alla propria consegna al patibolo ma in tale annientamento trova l'innalzamento della gloria.

  L'invito di cui al verso iniziale è pertanto allusivo e significativo in se stesso, visto che costituisce un monito ad essere umili e mansueti come lo è stato chi da Dio si è reso servo e a partire da questi sentimenti cristiani è possibile vivere la dimensione umile che conduce finalmente alla gloria.

 

3.2 imitatore del nostro Redentore

 

  Deriva da quanto appena riflettuto anche l'accettazione delle sofferenze e dei sacrifici che riserva puntualmente la vita religiosa.  

  Francesco non morì di morte violenta come i martiri del Nuovo Testamento o altri personaggi illustri di cui gli altari tessono le lodi del martirio, ma se il martirio attesta a qualsiasi coraggiosa testimonianza e in senso lato ci vuole tutti testimoni (greco martyureuo) è stato martire nella partecipazione alle sofferenze di Gesù con la sua stessa vita sacrificata e attraverso le vessazioni a cui volontariamente si volle assoggettare. Alessandro VI paragonandolo a San Francesco d’Assisi, lo definirà anzi “ardentissimo imitatore del Redentore”[124] nello specifico dell’immolazione al sacrificio e all’accettazione della sofferenza a cui egli educava anche i suoi religiosi e se possiamo tentare una comparazione in effetti la vita ritirata di San Francesco nella grotta  a cui fa seguito la dimensione apostolica e l’impegno nel mondo con i suoi frati, con i conterranei e i reali alla corte di Napoli e a Tour possono rievocare le tappe di passaggio di Gesù dalla vita nascosta a Betlemme  all’attività di predicazione e di insegnamento contestuale alla realizzazione dei miracoli e alla scelta degli apostoli tratti dal grosso seguito di discepoli: come per il nostro Redentore, anche per Francesco si realizzò una dimensione di apostolato conseguente alla ponderazione attenta e alla valutazione del mondo che lo circondava e che era oggetto delle sue attenzioni e anzi già la dimensione della grotta costituiva un apostolato vantaggioso di riscatto dei peccati dell’umanità. In questo senso possiamo affermare che nella sua particolare caratteristica di eremita e penitente San Francesco di Paola fu uno zelantissimo imitatore del nostro Signore Gesù Cristo.

  Il Lanovius, biografo del ‘1600 sulla vita del nostro Paolano, stende anche una comparazione fra il deserto a cui fu condotto Gesù per opera dello Spirito Santo e il deserto che sempre per volere dello Spirito fu indotto a vivere Francesco alle porte della città di Paola, anche per sottolineare l’analogia della grotta con quella del deserto matteano di Gesù: “Il santo Padre Francesco di Paola, imitatore del Cristo, fu condotto dallo Spirito santo nel deserto all’età di tredici anni, nel quale, dopo che passò tutta la quaresima senza cibo né bevanda, fu assalito da Satana con molte insidie… all’età di diciannove anni, uscendo dal nascondimento del deserto, venne nella città annunciando la penitenza, e, come Cristo, convertì con le sue sante prediche i peccatori… portò la croce della mortificazione.”[125] , tratteggiando così delle comparazioni fra la vita di San Francesco e quella del Redentore. Secondo il suo specifico e la particolare caratteristica di carismaticità evangelica, ogni Santo ha avuto il merito di equipararsi al nostro Signore Gesù Cristo di cui è stato imitatore fervente e devoto e anche nella vita e nella spiritualità di Francesco tale conformità al Cristo si è resa evidente nella dimensione di umiltà e di penitenza evangelica nel deserto di Paola dove ha vinto le tentazioni e le concupiscenze dominando i propri istinti e le passioni per essere forte contro se stesso e per poter predicare agli altri i medesimi valori di mortificazione e di annientamento.

  Aver voluto imitare Cristo e averlo portato agli altri non poteva tuttavia verificarsi se non dopo una lunga disponibilità ad essere di Questi discepolo: Francesco prima che imitatore si è posto senz’altro alla sequela del Maestro Salvatore che ha lasciato un’impronta indelebile nella sua formazione personale, apprendendo dallo stesso Cristo tutti gli elementi che forgiano l’uomo e il cristiano. Da Cristo insomma Francesco ha innanzitutto appreso. Ciò si realizzava nella prima infanzia, quando veniva istruito sugli elementi fondamentali della vita cristiana e indottrinato intorno alla vita di Gesù che Egli seguiva con passione ed interesse apprendendo quelle che erano sempre state le vere caratteristiche del Salvatore che non è venuto per essere servito ma per servire e che a nostra edificazione ha vissuto nell’estrema povertà e nella ristrettezza, che non si notava nella Roma papale dell’infanzia del nostro ragazzo, visto che egli stesso ebbe da obiettare sullo sfarzo di un Cardinale in sontuose vestigia. Ha imparato cioè da Cristo la povertà evangelica notando che questa richiedeva di essere vissuta con urgente determinatezza in una cultura ormai lassista quale era diventata quella della Chiesa; così pure ha appreso l’immolazione di Cristo sul patibolo, esteriorizzata dalla croce che egli recava sulla sommità del proprio bastone e di cui adornava non pochi altri suoi oggetti e suppellettili, e il continuo ricorso al crocifisso che egli contemplava e a più riprese rendeva oggetto di venerazione per tutti realizzando anche moltissimi miracoli per mezzo del segno della croce[126],attesta che egli era davvero affascinato del Salvatore e innamorato di ogni particolare della sua vita e del suo messaggio.

  Come discepolo di Cristo Francesco non potè non apprendere che Egli è “il più grande e il più prezioso di tutti i doni” indispensabile ad essere conosciuto e stimato da parte nostre e irrinunciabile nelle nostre scelte quotidiane.

  Non possiamo pretendere che Francesco sia stato affascinato dalle digressioni dogmatiche intorno al Cristo crocifisso innanzitutto come Logos incarnato, tuttavia non è fuori luogo osservare che l’amore a Gesù Cristo doveva essere in lui accresciuto anche dalla considerazione non indifferente che tale Cristo era per lui quello che l’umanità non può non accettare pena il proprio autolesionismo e la propria condanna a priori: Il Verbo di Dio che si è fatto carne venendo ad abitare in mezzo a noi; secondo la sua accezione greca, “abitare” corrisponde a “porre la sua tenda” ossia delimitare in mezzo a noi una dimensione di vita e di interazione del tutto umana per cui si è immediatamente innestati nel contatto con la gente; quindi il Verbo di Dio, onnipresente e onnisciente sin dal principio, nonché la Sapienza di Dio che ha voluto abitare la nostra casa assumendo la concretezza della nostra storia e non disdegnando di abbracciare le vanità del nostro peccato. Dio fattosi uomo per condividere in tutto, tranne che nel peccato, la nostra condizione di meschinità vivendo e interagendo con noi uomini come con amici per invitarci tutti alla comunione con il Padre[127] e manifestando nelle parole e nelle opere di misericordia l’avvento di Dio nella nostra dimensione storica, e che finalmente annichiliva se stesso realizzando nello Spirito Santo la volontà del Padre finalizzata alla soteriologia del sistema creato e caduco, e appunto a partire da queste convinzioni che egli poteva attestare a tutti che il Cristo è il dono più grande da parte di Dio. Il dono più grande che il Padre possa avere infatti donato all’umanità è il Figlio Gesù Cristo, l’Unto di Dio Signore e Redentore costituito per apportare la salvezza agli uomini e per indicare la strada per la novità del Regno nel rendersi uomo lui stesso e condividere con noi tutte le precarietà della condizione umana, e che pur non avendo peccato Dio ha voluto rendere peccato a nostro vantaggio (2 Cor 5, 17 – 21) diventando da fautore di ogni benedizione, maledizione esplicita per noi (Gal 3, 13) affinché pere mezzo di Lui, Cristo Verbo Incarnato noi potessimo approdare alla comunione con Dio Padre nello Spirito Santo; se anche Francesco, nelle limitatezze della sua formazione teologica, non era in grado di partorire questa concezione di Cristo, egli in tutti i casi doveva pure intuirla e coltivarla interiormente per poter definire lo stesso Signore il dono più grande. Il dono che Dio rivolge gratuitamente e senza riserve all’umanità.

3. 3 Amore all’Eucarestia

 

  Se per Francesco Gesù Cristo Verbo di Dio doveva essere il più grande di tutti i doni, sicuramente ciò deve anche essere stato motivato dal fatto che Egli ha voluto essere anche nostro alimento nonché pane di vita, per farsi consumare dagli uomini nel banchetto dell’Eucarestia. Francesco doveva essere animato da una grande fede nel Sacramento sin da ragazzo se è vero che nella sua condotta spirituale egli aveva sempre di mira il tabernacolo, considerato come oggetto di amore e di venerazione al di sopra di tutte le icone e delle rappresentazioni sacre, intrattenendosi per parecchio tempo davanti al SS. Sacramento al termine di ogni Celebrazione Eucaristica.

  Per Francesco l'Eucarestia doveva essere quello che ha sempre rappresentato per tutti gli uomini illustri in santità in tutte le epoche: la presenza reale e sostanziale del Cristo nel suo Corpo, Sangue, Anima e Divinità sotto le sembianze del pane, secondo la promessa di Gesù che sarebbe stato con i suoi fino alla fine del mondo. Un modo del tutto speciale del presenziare di Gesù nella nostra vita è stato quello di farsi nostro pane di vita (Gv 6) chiedendo a tutti di essere consumato quale alimento di sostegno per la vita presente e futura: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue avrà in se la vita e io lo resusciterò nell'ultimo giorno”. Cosicchè il mangiare materialmente di Cristo corrisponde al vivere in pienezza di lui trovando il sostentamento di vita.

  L'essere presente realmente e sostanzialmente nella vita di Gesù intende qualificare la presenza costante di Gesù in mezzo a noi come il Risorto che visse in Galilea in mezzo ai suoi manifestandosi a più riprese dopo l'uscita dal sepolcro[128] e questa presenza motiva e sprona la Chiesa verso ogni attività e opera missionaria che su essa si fonda e da essa trae la propria scaturigine poiché l'Eucaresia fa la Chiesa e la Chiesa si anima nell'Eucarestia, ma il primitivo amore verso l'Eucarestia si rende palese nella contemplazione del Mistero del Corpo e del Sangue di Gesù quando ci si propone sull'altare nella venerazione pubblica poiché l'ammirazione adorativa del Mistero ci affascina come pure ci è di formazione e di edificazione quella che è la ripresentazione del sacrificio di Cristo durante la celebrazione dell'Eucarestia. Ed è per questo che il nostro Santo, come pure moltissimi mistici che la storia della Chiesa ricordi venivano affascinati ed elevati nel contemplare Gesù Eucarestia mentre silenzioso davanti a loro troneggiava sul tabernacolo, non omettendo di intrattenersi a lungo davanti ad Esso al termine di ogni celebrazione eucaristica, questa seguita con fascino ed interesse. 

 

3.4 La devozione di Francesco alla Madonna

 

  La devota imitazione di Cristo e il fascino che Francesco aveva per la sua incarnazione connessa alla kenosi dell’umiliazione e dell’annientamento non poteva che incutergli amore anche verso Maria, come del resto è evincibile anche nella spiritualità dei Padri del deserto da cui affonda le radici la spiritualità del nostro Fondatore: Cristo Verbo incarnato e annichilito per la nostra salvezza ha deliberato di assumere egli stesso l’umanità rendendosi carne e assumendo la nostra storia e il nostro ambito umano in pienezza. Ne deriva allora che Egli abbia scelto un grembo materno per eleggere la dimensione umana carnale per poter in pienezza condividere la nostra dimensione nascendo da donna e sotto la Legge (Gal 4, 4 – 5) e pertanto ogni fedele che prenda atto del dono di salvezza operato dal Redentore  Verbo incarnato non può che associare i suoi sentimenti di amore oltre che al Cristo anche a colei che ne ha concesso l’incarnazione. Cosicché, come in qualsiasi altro uomo di Dio, in Francesco si fomentava un vivissimo interesse per Maria, questo tuttavia non svincolato anzi preceduto dall’amore verso Cristo. Scrive Bellantonio: “Tutta la dignità, la grandezza, la gloria di Maria è venuta da Gesù; pertanto San Francesco di Paola non si rivolge a lei, nella sua pietà, se non inseparabilmente dal Figlio suo Gesù Cristo.”[129] , il che è appunto comprensibile per chi riesce a collocare nella reale dimensione che le è dovuta la devozione alla Vergine Madre di Dio. Senza nulla togliere al valore della religiosità popolare alla quale anche Francesco era affascinato resta fermo che la sua venerazione alla Madonna si coniugava con l’affermazione del primato di Gesù come fra l’altro si riscontra anche nel famoso binomio Gesù – Maria che era molto ricorrente nelle esclamazioni di Francesco, come pure nelle attitudini significative di devozione alla Vergine. Esse si riscontrano innanzitutto durante l’infanzia, per esempio quando il piccolo Francesco rifiuta l’invito della madre a coprirsi il capo mentre sta recitando il rosario in chiesa: “Madre mia, se in questo momento io parlassi con la regina di Napoli mi direste voi di stare a capo coperto? Ebbene, non è forse assai più grande la regina del cielo con la quale parliamo?”[130]. Oppure, durante la permanenza di Francesco nel convento di San Marco Argentano, quando egli attendeva all’orazione aiutato da un’immagine della Madonna e da un’altra di San Francesco d’Assisi e durante lo stesso viaggio ad Assisi quando si reca nella chiesa di Santa Maria degli Angeli.

  Altri episodi semplici e ordinari della religiosità del nostro Paolano attestano come fosse espressiva la sua devozione alla Vergine: recitare devotamente l’Ave Maria e invitare i suoi religiosi e il popolo a fare altrettanto, dedicare non pochi conventi e chiese dell’Ordine alla Madonna, recitare l’Ufficio mariano e il rosario tutti i giorni, come pure invocare Maria in tante occasioni comuni sono segni che la devozione mariana da parte di Francesco era tutt’altro che trascurata.

  Ma è soprattutto in quel famoso rifiuto del dono da parte di Luigi XI di una icona mariana in oro che Francesco esprime tutta la responsabilità e la consapevolezza di una devozione fondata e radicale a Maria: in quella circostanza il rifiuto dell’oro e la rivendicazione della reale devozione alla Vergine Santa in Cielo, che si rende espressiva con l’aiuto di una semplice immagine di carta, realizza che l’amore verso Maria deve essere scevro da ogni condizionamento esterno e libero da vincoli di compromesso: accogliere il dono di un’immagine dorata equivale ad esporsi al rischio che la propria devozione sia inficiata dai beni materiali, dalla vanità e dal vizio mondano, mentre la vera venerazione di Maria non conosce mediazioni umane allusive di sfarzo o di ricchezza. L'esteriorità delle nostre devozioni, pur avendo il suo valore apprezzabile, può di fatto ingenerarci il rischio che da parte nostra si ometta la considerazione di Maria come Madre di Dio e Madre nostra e cooperatrice alla storia della salvezza, sulla quale si è reso protagonista l'amore di Dio nei confronti dell'umanità, amore salvifico e di riscatto che ha esaltato le semplicità di una povera fanciulla ed è per questo che ogni devozione mariana non può escludere l'immediato accostamento a Cristo Verbo Incarnato e salvatore.

  Particolare caratteristica riflettuta da parecchi scrittori dell'Ordine dei Minimi è anche il dato di fatto che l'Ordine, espressione nella Chiesa della penitenza continua quale conversione radicale e convinta a Dio, sia stato privilegiato dalla stessa Vergine, che apparve in sembianze umane il 20 Gennaio del 1842 nella Basilica minima di Sant' Andrea delle Fratte in Roma, nei pressi di Piazza di Spagna: in tale data, l'ebreo (ma di fatto ateo) Alfonso Ratisbonne, nobile signore che si trovava di passaggio a Roma per affari, attratto dal fascino delle opere artistiche del monumento che presenta tuttora capolavori del Bernini e del Vanvitelli, contemplava i bassorilievi, le statue e i dipinti della chiesa camminando lungo la navata centrale, quando improvvisamente notò che nonostante fossero appena le 12.00 il tempio si oscurò ad effetto notte; quasi contemporaneamente da uno degli altari laterali della chiesa si sprigionava come un fascio di luce intensa e luminosa che avvolgeva l'immagine di una bella donna che gli indicava con l'indice il punto in cui si sarebbe dovuto inginocchiare. Alfonso, che prima era sempre stato un accanito avversario del papato e delle istituzioni ecclesiastiche e che aveva denigrato ogni dottrina ed emendamento del Magistero e della fede cattolica, dopo essersi inginocchiato si rialzò fervente cattolico convinto. Entrerà poi in un convento di Gesuiti e darà vita ad un Ordine religioso femminile (le Figlie di Sion).

  La conversione dell'ebreo Alfonso Ratisbonne incoraggia l'Ordine a vivere e ad attuare il carisma della penitenza che viene così sollecitato nella sua messa in pratica dall'assistenza dell'intercessione di Maria che a motivo di questo prodigioso evento viene denominata dai frati Minimi con il titolo di Madonna della Conversione, facoltativo a quello di Madonna del Miracolo  con il quale la Vergine è pubblicamente venerata dal popolo della Basilica di Sant'Andrea delle Fratte.


 

[1]             G. Roberti, San Francesco di Paola, storia della sua vita, Curia Generalizia dell’Ordine dei Minimi, Roma 1963, pag. 70. L’autore si rifà soprattutto alla Vita Anonima e al Perrimezzi, da lui ritenuto il più fondato e attendibile.

[2]             I. Giordani, Francesco di Paola, un eremita in una reggia, Edizioni Politica Popolare, Napoli 1958, pag. 26

[3]             A. Galuzzi, Origini dell’Ordine dei Minimi, Pontificia Università Laterenense – Curia Generalizia dell’Ordine dei Minimi, Roma 1967, pag. 15: “Perché spingersi sino a San Marco per soddisfare il voto, quando a san lucido, a pochi Km da Paola, vi era un convento francescano? Forse l’amicizia della famiglia D’Alessio con P. Antonio Paparico da Catanzaro, ex guardiano della Ss Annunziata di S. Lucido ed ora locale a S. Marco, avrà determinato la scelta.”

[4]             Anonimo, Vita di San Francesco di Paola, a cura di P. Nicola Lusito om, Edizioni Santuario Basilica di San Francesco, Paola 1967, I pag. 9 (cito il testo direttamente in lingua italiana). L’ipotesi dell’età dei 13 anni è messa in rilievo dal teste n. 6 del Processo casentino. G. F. Morosini (Il carisma penitenziale di San Francesco di Paola e dell’Ordine dei Minimi. Storia e spiritualità, Curia Generalizia dell’Ordine dei Minimi, Roma 2000, pag. 18, nota 57) richiamandosi alla tesi di Laurea del Coschignano (Figura e spiritualità di San Francesco di Paola nella chiesa del XV secolo, PUG, Roma 1973) afferma che l’ipotesi più probabile sembra essere quella dell’Anonimo, soprattutto per il fatto che i Frati Minori conventuali dell’epoca non era invalsa la disposizione di accogliere i minorenni in convento, e comunque, quando li si accolse si operò una distinzione fra coloro che erano intenzionati ad un serio cammino in vista della definitiva consacrazione religiosa francescana (che dovevano entrare in convento ad un’età non inferiore ai 14 anni che poi divenne 16 quindi 18) e coloro che vi facevano ingresso per una esperienza temporanea. Eccettuando il caso di voto religioso, anche presso altre Costituzioni Religiose vi era la prescrizione che i giovanissimi fossero accolti nelle comunità per vestire l’abito non prima di aver compiuto i 14 anni, ne deriva allora che è più probabile che l’ingresso in Convento del Nostro sia avvenuto effettivamente all’età di 15 anni.

[5]             A. Galuzzi, Origini… op. cit. pag. 17 Gli assertori di tale ipotesi sono : De Pineda, L. Gonzaga, L. Miranza, aspramente contestati dal Perrimezzi, dall’Anonimo e dalla stessa Bolla di canonizzazione del Santo Paolano. 

[6]             G. Roberti, cit. pag. 84

[7]             Anonimo, cit. pag. 11

[8]             La veste sacra indossata da Francesco nel convento francescano calabro per varie traversie raggiunse il Convento di Santa Maria della Stella in Napoli ma andò perduta nel 1943 in seguito ad un possente incendio che devastò la chiesa.

[9]             P. F. Capponi, Vita di San Francesco di Paola, Santuario di S, Maria della Luce, Roma 1954, pag. 29

[10]            La notizia della vocazione eremitica del Santo ci è data dal teste n. 6 al Processo casentino di canonizzazione.

[11]            G. Roberti, cit. pag. 110

[12]            Sul P. Baldassare Da Spigno (Piemonte ai confini con la Liguria) sarebbe opportuno realizzare un capitolo apposito, per l’importanza che questo personaggio rivestirà per il progresso canonico dell’Ordine di San Francesco di Paola. La sua origine si deve ad un’inchiesta del papa Paolo II che volle intervenire con una verifica perché non convinto di quanto si affermava intorno all’eremita Francesco e allo stile di vita che conduceva egli stesso e che imponeva ai suoi religiosi. Paolo II inviò a Paola questo prete della Cura Romana, Badassare De Groussisi, laureato in scienze canoniche ad appurare la consistenza di quanto si affermava intorno a Francesco ed ebbe modo di incontrare l’eremita privatamente, al quale rimproverò in un primo momento di aver impostato uno stile di vita per sé stesso e per i suoi religiosi che non era compatibile con le condizioni della natura umana; rimase tuttavia ammirato ed esterrefatto dalla virtù di Francesco e soprattutto dall’atto con cui questi, in quell’occasione, raccolse il fuoco con le mani senza ustionarsi. Il fascino che Francesco causò su di lui lo indusse a riflettere sulla sua vocazione sacerdotale e a scegliere egli medesimo la consacrazione nell’Ordine eremitico paolano.

[13]            Cfr G. F. Morosini, San Francesco di Paola, vita, personalità e opera, Curia Generalizia dell’Ordine dei Minimi, Roma 2006, pagg. 106 - 111

[14]            E’ il teste 37 al processo Casentino di canonizzazione a fornirci questa notizia. In verità il testimone non parla espressamente di San Francesco di Assisi, ma di una visione clestiale divina. Che sia stata questa individuata nell’Assisiate è comune opinione popolare e anche espressa dal papa Leone X  nella bolla di canonizzazione di San Francesco di Paola.

[15]            In particolar modo il Processo casentino, dal teste n. 10 in poi.

[16]            Anonimo, Vita, pagg. 31 - 33

[17]            Ivi. pag. 25

[18]            Teste n. 31 al Processo Cosentino

[19]            Cfr ad esempio il teste n. 100 al Processo Cosentino

[20]            Anonimo, Vita, pag. 27

[21]            Ivi. pag. 29

[22]            Teste n. 11 Processo Cosentino

[23]            Anonimo, Vita, pagg. 71 - 75

[24]            Dudum Devota, pag. 41, cit. in G. F.. Morosini, Il carisma penitenziale… op. cit. pag. 198 Da notarsi come la prima famiglia eremitica non facesse uso di scarpe o calzature di alcun tipo, adesso invece li si descrive con calzature, comunque sempre nello stile delle precarietà.

[25]            Anonimo, Vita, pag. 19

[26]            Con molta probabilità  dopo il 1470

[27]            E’ infatti quella del 1473 la data di riferimento per cui la congregazione eremitica potrà allargare i propri confini presso altri luoghi al di fuori di Paola

[28]            E’ il teste 4 del processo casentino a riportare tale profezia, citato da G. F.Morosini, san Francesco di Paola, ita, spiritualità e opera… op. cit. pag. 134. L’invasione dei Mussulmani in Italia di fatto si ebbe a partire dal 1479 quando questi espugnarono Venezia. L’anno seguente venne assediata terribilmente anche Otranto. Consultato più volte in merito a questo conflitto cristiano – mussulmano, Francesco si ritirò in preghiera nella sua cella del convento di Paterno per la durata di otto giorni. Quando tornò fra la gente, comunicò a tutti la profezia che i Turchi, prima vincitori sarebbero stati battuti. Ed effettivamente, in seguito ad una coalizione fra Ferrante d’Aragona e papa Sisto IV l’esercito mussulmano venne sconfitto e costretto alla resa.  La situazione politica dell’Italia suddivisa da tanti stati e staterelli che vantavano diritti gli uni sugli altri e che accendevano non poche contese, aveva reso possibile che il paese fosse facilmente soggetto a tali invasioni.

[29]            Anonimo, Vita, pagg.  65 - 57

[30]            Cfr, G. Roberti, San Francesco di Paola… cit. pag. 236

[31]            Ad attestare il miracolo dell’attraversamento dello stretto di Messina a bordo del mantello furono persone certamente attendibili al Processo Calabro, alcuni dei quali (teste 22) si identificano con i viandanti dalla bisaccia vuota spettatori del miracolo di cui sopra.

[32]            Non si hanno elementi certi sui miracoli compiuti da Francesco durante la sua permanenza a Milazzo

[33]            Anonimo, Vita, pagg. 55 - 57

[34]            G. Roberti, san Francesco di Paola… cit. pag. 337

[35]            La pietra si trova oggi conservata nel Convento dei Monti in Roma

[36]            Non si è avuta più notizia di quel ritratto.

[37]            E’ tradizione che Francesco avesse pronunciato la profezia che quel luogo impervio in cui sorgeva l’angusto convento minimo sarebbe diventato uno dei luoghi più insigni e suggestivi d’Italia. Si tratta dell’omonima Piazza Plebiscito su cui torreggia la Basilica Reale San Francesco di Paola affidata ai PP. Minimi.

[38]            Così ad esempio il teste 85 al processo calabro

[39]            A. Gaetti, S. Francesco diPaola passò per Genova nel 1483? BUM VIII (1962) n. 1 pagg. 52 – 81. Addante in tempi recentissimi descrive il fatto come cosa scontata: P. Addante, San Francesco di Paola, Paoline, Cinisello Balsamo 2007, pag. 180: “Francesco, posando lo sguardo sul colle, chiamato Caldetto, che domina il porto e la città, disse con accento profetico: ‘Lassù, piacendo a Dio, ben presto avremo un monastero, che si chiamerà di Gesù e Maria.”

[40]            Anonimo, Vita, pag. 85

[41]            Anonimo, Vita, pag. 101

[42]            Per l’evolversi degli eventi del regno di Carlo VIII stiamo seguendo particolarmente G. F. Morosini, san Francesco di Paola… cit. pag. 225 e ss. che opina che il re di Francia potrebbe aver preso l’iniziativa di raggiungere perché animato dall’avvento improvviso dei Turchi che insidiavano già le coste italiane. Il reale motivo della venuta a Napoli di Carlo VIII resta tuttavia ancora oscuro.

[43]            I due Luigi erano cugini secondi.

[44]            E’ possibile leggere il contenuto delle loro testimonianze in P. Addante, San Francesco di Paola, cit., pag. 222 - 223

[45]            Si pensi per esempio al movimento boemo degli Utraquiti, che imponevano la ricezione del Sacramento esclusivamente sotto le due specie.

[46]            In apertura il documento porta l’intestazione di Regola e vita di Fra’ Francesco di Paola, povero e umile eremita di Paola che dona a tutti i suoi frati, che vogliono entrare a vivere nel suo ordine.

[47]            La lettera è stata rinvenuta dal P. Roberti all’archivio del Vaticano; ora è citata dallo stesso G. Roberti, san Francesco di Paola… cit., pagg. 519 - 520

[48]            L’Ordine di San Francesco di Paola ha assunto infatti differenti nominativi locali nei vari luoghi dove i religiosi si trovarono a vivere e ad operare e tali denominazioni è possibile riscontrarle ancora oggi: in alcune parti d’Italia i frati Minimi vengono chiamati Paolotti, altrove i Buoni uomini, in Spagna sussiste l’appellativo di Frati della vittoria. Nella Caloria del 1400 i Minimi erano stati chiamati i Romiti di Paola e a Genova Frati del Principe d’Oria.

[49]            Per il confronto dei testi delle varie edizioni della Regola cfr G. F. Morosini, Le Regole dell’Ordine dei Minimi, Curia Generalizia dell’Ordine dei Minimi, Roma 2006

[50]            Dopo il Concilio Vaticano II, per fare un esempio, ferma restando l’astinenza dalle carni e dai derivati e la pratica dei digiuni prescritti in tempi di Quaresima, venne resa facoltativa l’astinenza dai cibi derivati dalla carne, ossia le uova e i latticini che adesso vengono consumati nelle case dell’Ordine. Resta consolidata l’astinenza dalla carne e dai salumi, ma da più parti è stata presentata l’obiezione che essa oggi non avrebbe più valore neppure in merito allo stile penitenziale, visto che oggigiorno cibo prelibato e costoso è il pesce, di cui i Minimi fanno uso in alternativa.

[51]            Si è detto parecchie volte, però, che essendo il carisma dei Minimi quello della maggiore penitenza evangelica, sarebbe molto congeniale che ci si dedicasse con maggiore zelo alle opere inerenti siffatto apostolato immediato da ritenersi opere irrinunciabili, quali per esempio il sacramento della Riconciliazione, della Direzione Spirituale, la predicazione incentrata sulla conversione

[52]            Vi è tuttavia una lettera scritta dal Santo Eremita in data 25 Gennaio 1489 e indirizzata “alle devote figlie che abitano nella casa del nobile De Lucena” che attesterebbe che in casa di questo signore facoltoso alcune ragazze si erano già ritirate per dedicarsi alla vita ascetica avendo come referente Francesco di Paola.

[53]            A. Galuzzi, Origini del Secondo Ordine dei Minimi, BUM XVII (1971) 1 – 4 pagg. 67 - 69

[54]            Nel nostro paese le monache Minime sono presenti a Grottaferrata (Rm) e Todi (Pg); di recente fondazione (1994) è il monastero di Paola, a ridosso del Santuario del I Ordine.

[55]            Anonimo, Vita pagg. 17 - 19

[56]            Questo si evince dalle testimonianze al processo di Amiens (teste 121) e del Processo Calabro (29), già citate in G. F. Morosini, San Francesco di Paola... , op. cit. pag 180 e ss.

[57]            Questo avviene soprattutto nelle comunità ecclesiali dedicate a San Francesco di Paola oggi non più rette dai PP. Minimi come le parrocchie guidate dai preti diocesani in cui presenziano fraternità TOM (Terz'Ordine Minimi), esse   vengono comunque assistite periodicamente da un sacerdote minimo saltuario che organizza le adunanze. Casi specifici di tal fatta si riscontrano per esempio nella parrocchia di San Francesco di Paola in Torre Annunziata (Na), nella parrocchia San Franceco di Paola di Scafati (Sa) nella comunità di Vietri Sul mare (zona Benincasa, Salerno).

[58]            G. F. Morosini, Il Terzo Ordine dei Minimi, spiritualità e impegno apostolico, Paola 1988

[59]            G. F. Morosini, Il carisma penitenziale… op. cit. pag. 22. Vengono citati qui anche A. Vauchez, la santità nel Medioevo, Milano 1989 e per l’approvazione della III Regola anche Afu, pag. 59.

[60]            A. Galuzzi, San Francesco di Paola seguace dei Padri del deserto, BUM, XXXV (1989), pagg. 434 – 438, qui pag. 435.

[61]         Vale la pena riportarne qualcuno tratto dall’apposito testo Detti e fatti dei Padri del deserto, a cura di C. Campo, P. Draghi. Milano, Rusconi 1992, tuttavia ripreso adesso dal sito www.gianfrancobertagni.it : “Un fratello interrogò un anziano: « Quale è la cultura dell'anima che porta frutti? ». L'anziano rispose: «La cultura dell'anima consiste in questo: l' hesychia del corpo, molte preghiere corporali, non fare attenzione alle colpe degli uomini ma solamente alle proprie. Se l'uomo persevera in tutto questo, la sua anima non tarderà a produrre frutti »; Fu domandato a un anziano: « Come avviene che io mi scoraggi senza tregua? ». « Perché non hai ancora visto la meta », rispose; I fratelli dicono: « Quale è la preghiera pura?». Il vecchio dice: « Quella che è breve in parole e grande in opere. Poiché se le opere non superano la richiesta non sono che parole vuote, semente che non dà frutto”

 

[62]            Associare la figura del  Paolano a quella di Sant’Antonio Abate è abbastanza ricorrente in tutti i testi e gli elaborati sulla sua vita, primo fra tutti l’Anonimo: “Somigliava a Sant’Antonio, così come viene generalmente dipinto” (Vita, cit. pag. 37.

[63]            Si dice che sarebbe stato illuminato prodigiosamente ad associare alla preghiera e alle mortificazioni anche il lavoro manuale, con il quale provvedeva al proprio sostentamento.

[64]            La prima esperienza di vita cenobitica codificata sembra essere stata riscontrata tuttavia in Pacomio che dopo una lunga esperienza di solitudine del deserto istituì una Regola per disciplinare gli eremiti costituitisi in comunità sotto la guida di un abbà o padre spirituale. Uno degli elementi che la Regola poneva al monaco era la partecipazione alle tre catechesi settimanali.

[65]            Si potrebbe obiettare che anche in San Benedetto, padre del monachesimo in Occidente, vi fosse stato un esempio concreto di dedizione eremitica, ma occorre considerare che fino al secolo XI vi era una distinzione marcata fra eremitismo e monachesimo: eremo era infatti considerato il terreno desertico, inospitale e disabitato che era oggetto di interesse da parte degli aspiranti alla vita solitaria, secondo l’accezione di terra erma. Solo nel secolo XI si attribuisce il termine ai comuni luoghi monastici (F. Figara, La grande stagione dell’eremitismo in occidente nei secoli XI – XIV, in: ttp://www.mondimedievali.net/pre-testi/eremitismo.htm ) L’autore menziona l’importante lavoro di J. Leclerq, L’eremitisme

[66]            F. Figara, cit. Altro contributo di notevole importanza sull’eremitismo medievale è L’eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII, Atti della Seconda Settimana Internazionale di studio, Mendola, 30 Agosto – 6 Settembre 1962, Ed. Vita e Pensiero, Milano 1965

[67]            E’ l’intento di J. Leclerq, L’eremitisme.. che individua le comunanze esistenti in tutte le esperienze di vita solitaria.

[68]            R. N. Vasaturo, Santuario di Montenero; frammenti di storia, Comunità Monastica di Montenero, Livorno 2007, pag. 5

[69]            G. Tabacco, Romualdo di Ravenna e gli inizi dell’eremitismo camaldolese, in L’eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII, cit.  pagg. 73-121.

[70]            A. Galuzzi, Origni dell’Ordine dei Minimi, cit. pag. 10. Un nome degno di menzione a proposito dell’eremitismo in Calabria nel secolo XV, e particolarmente nella diocesi di Cosenza lo si vede in Telesforo.

[71]            P. De Leo, Francesco di Paola e la società calabrese, in: San Francesco di Paola, chiesa e società del suo tempo, Atti del Convegno Internazionale di Studio, Paola 20 – 24 Maggio 1983, Curia Generalizia dell’Ordine dei Minimi, Roma 1984, pagg. 95 - 123

[72]            A. Galuzzi, Origini… cit. pag 10

[73]            V. Morrone, San Francesco di Paola, umiltà, penitenza e carità, dal sito: http://www.paginecattoliche.it/SanFra_diPaola.htm

[74]            P. A . Castiglione, San Francesco di Paola. Vita illustrata, Curia Generalizia Ordine dei Minimi, Roma 1986

[75]            Cfr. G. Cremascoli, L’eremitismo nella letteratura del quattrocento in Italia, in san Francesco di Paola, Chiesa e società del suo tempo, cit., pagg. 12 - 25

[76]            P. Addante in un altro scritto diverso da quello sopra citato insiste tuttavia con il sottolineare che Francesco, se pure non erudito e ben lontano dalle fattezze dell’uomo di cultura manierato e compassato doveva avere tuttavia avuto un’istruzione basilare per la quale conosceva almeno la scrittura e la lettura ed è improbabile che gli sia mancata una direzione formativa in senso culturale. Fra l’altro Francesco non mancò neppure di mostrarsi all’altezza della conoscenza del Vangelo e delle comuni digressioni teologiche : P. Addante, Il processo casentino e turonense a Francesco di Paola. Ricerche storico – critiche, Centro ricerche storico filosofiche, Bari 1979, pagg. 33 - 35

[77]            G. F. Morosini, La pietà popolare e la spiritualità di San Francesco di Paola, in AA. VV. Fede, pietà, religiosità popolare e San Francesco di Paola, Atti del II Convengo Internazionale di studio, Paola 7 – 9 Dicembre 1990, Curia Generalizia dell’Ordine dei Minimi, Roma 1992, pagg. 179 - 205

[78]            G. F. Morosini,Il carisma penitenziale… op. cit. pag 115 e ss.

[79]            Anonimo, Vita, pag. 39

[80]            Teste 38 al Processo Touronense, qui citato da P. Addante, San Francesco di Paola… cit., pag. 224

[81]            Anonimo, Vita pag. 21

[82]            G. F. Morosini, Fuga dal mondo e sequela di Cristo nella spiritualità dell’Ordine dei Minimi, Curia Generalizia dell’Ordine dei Minimi, Roma 1984, pagg.  91 - 92 

[83]            Anonimo, Vita, pagg. 19 – 21 Notiamo che tuttavia in Francia i testi affermeranno che l’uso del vino, sia pure, in misura ridotta, si verificava in Francesco.

[84]            G. F. Morosini, l’esperienza della grotta nella spiritualità di san Francesco di Paola, Paola 1988, pag. 17 e ss.

[85]            A. Galuzzi, San Francesco di Paola, prezioso esempio di penitenza, BUM, XXIX (1983) pagg. 84 - 88

[86]            ASV Reg Lat 1186, f. 1v cit. in A. Galuzzi, Origini, op. cit. pag. 111: “Se per Alessandro VI la precedente redazione era “lumen ad rivelationem gentium”, per Giulio II la presente è “ad illuminatione poenitentium”, cioè le si riconosce il carattere penitenziale in essa particolarmente inculcato. Il passo della Regola è quello della IV Reg, 2.

[87]            Cfr. F. Santoro, Fondamenti biblici nella spiritualità dell’Ordine dei Minimi, Grottaglie 1987, pag. 30, nota 4: “Convertirsi’, ‘metanoien’ corrispondono all’ebraico sub, che ha vari significati. ‘ Cercare jahwè’, ‘umiliarsi davanti a lui’, ‘Ritornare’, ‘invertire il cammino’, ‘distogliersi da un cammino fin qui seguito’. Quindi “convertirsi” non è solo dispiacersi dei peccati, chiedere perdono e rinunciare ad essi, ma comporta anche un atteggiamento pratico: bisogna indirizzare la propria esistenza solo a Dio, vi è l’idea di una strada, un cammino, se il viaggio è stato condotto in un senso sbagliato, bisogna ‘ritornare’ indietro.

[88]            J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriana, Brescia 2005, pag. 80

[89]            Tuttavia la penitenza nell’Antico Testamento assume anche dei connotati di positività. In tutti i casi specifici si riscontra infatti che l’origine di tutti i mali e delle punizioni non è il Signore in se stesso, quanto piuttosto l’ostinazione da parte della comunità di Israele a dimenticare i suoi precetti: finché ci si allontanerà dal Signore per seguire i nostri idoli materiali e soprattutto quelli del falso orgoglio e della presunzione, noi cadremo vittime delle nostre stesse colpe e procureremo da noi stessi la nostra condanna

[90]            Stiamo prendendo in considerazione nel loro insieme i vangeli sinottici Mc 1, 1-8; Mt 3, 1- 16; Lc 3, 1-8 e Giovanni 1, 19-34

[91]            T. Goffi, Conversione, in: Nuovo Dizionario di spiritualità, a cura di s. de Fiores – T. Goffi, Paoline, Cinisello balsamo 1994, pagg. 288 – 294, qui pag. 291

[92]            Così per esempio il teste n. 1 al processo turonense: “… Per quanto se ne sappia, non v’è chi lo raggiunga dal tempo di San Giovanni Battista… Santo per la vita austera.”

[93]            Famosi sono i casi di permanenza di Mosè nel monte di Dio (Es 34, 28); i 40 giorni del cammino di Elia che fugge dalla regina Gezabele (1 Re 19, 1-8) e i quaranta giorni di permanenza del popolo di Israele nel deserto (Nm 14)

[94]            G. F. Morosini, L’esperienza della grotta… op. cit. pagg. 73 - 74

[95]            PAOLO VI, Cost. apost. Paenitemini, 17 febbraio 1966

[96]            GS 13

[97]            R. Gerardi, Teologia ed etica della penitenza, EDB, Bologna 2001

[98]            T. Goffi, Ascesi, in Nuovo dizionario di spiritualità, cit. pagg. 65 – 85, qui pag. 68

[99]            Vedi precedente nota

[100]          G. F. Morosini, L’esperienza della grotta… op. cit. pag. 67

[101]          Anonimo, Vita, pag. 37

[102]            Il senso cristiano del digiuno e dell’astinenza, Nota pastorale della Conferenza Episcopale Italiana, Roma, 4 Ottobre 2004, n. 7

[103]          Conferenza Episcopale Italiana, Il senso cristiano del digiuno e dell' astinenza, cit.

[104]          Anonimo, Vita, cit. pag. 131

[105]          T. Goffi, Mondo, in Nuovo dizionario di spiritualità, cit. pagg. 1030 - 1044

[106]          C. A. Bernard, Teologia spirituale, Paoline, Cinisello Balsamo 1993, pag. 298

[107]          G. F. Morosini, Fuga dal mondo e sequela di Cristo… op. cit. pagg. 11 - 21

[108]          Il senso cristiano del digiuno e dell’astinenza, cit. n. 7

[109]          E’ molto bella a tal proposito l’esposizione sul Padre Nostro di . Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, pagg. 157 – 200

[110]          P. Romieux, Saint Francois de Paule homme de priere, in: san Francesco di Paola, chiesa … cit. pag. 240

[111]          Anonimo, Vita, cit. pag. 133

[112]          G. F. Morosini, Fuga dal mondo… op. cit, pagg. 38 - 44

[113]          J. Leclercq, Etudes sur le vucabulaire monastique du moyen age, “Studia Anselmiana”, 48, Roma 1961 pagg. 122 e ss. Già citato nello stesso Morosini, Fuga dal mondo…

[114]          In verità le due finalità del silenzio vengono espresse ciascuna in un determinato contesto: del “troppo parlare come non esente da colpa” si fa riferimento soprattutto nella Prima Regola, mentre il silenzio come condiziona favorevole all’orazione è menzionato nella III Regola.  “Mentre nelle prime tre regole il valore del silenzio è messo in relazione ad un principio di natura morale (il rendiconto finale di ogni parola inutile sulla scorta di Mt 12, 36), nella quarta regola il valore del silenzio viene messo direttamente in relazione alla preghiera: ‘perché tutti i frati abbiano maggiore possibilità di pregare’ IV Reg. VIII, 35… Questa diversità a mio giudizio esprime la preoccupazione del legislatore di creare in un contesto sociale e ambientale completamente nuovo, quale era quello francese, le condizioni naturali di silenzio, che il ‘deserto’ di Paola e, in genere, i primi romitori, costruiti fuori dai centri abitati, avevano per natura, e che favorivano l’atmosfera di preghiera, necessaria per rispondere alle esigenze della vocazione eremitica. (G. F. Morosini, Fuga dal mondo.. cit. pag. 42

[115]          Cfr B. Haring, Preghiera: presenza e ascolto di Dio, Paoline, Roma 1975

[116]          A. M. Hunter, The Gospel according to St. Paul Londra, 1966, pag. 109

[117]          Lumen Gentium, 43 – 44; Perfecte Caritatis, 1

[118]          Anonimo, Vita, pag. 39

[119]          Lettera scritta a Tours il 10 Settembre 1486 riportata in A. Galuzzi, Origini, op. cit., pag. 121

[120]          J. Leclercq, La contemplazione di Cristo nel monachesimo medievale, paoline, Cinisello Balsamo 1994, pagg. 60 e ss. L'autore osserva come lo spirito dell'umiltà, della mansuetudine e dell'amore reciproco fra i monaci venga colto dall'eredità di questo testo paolino soprattutto nella Regola di San Benedetto che lo cita anche a proposito dell'obbedienza al Superiore per amore di Dio sulle orme dello stesso Cristo Obbediente. Tutta la vita del monaco è anche una lotta umile e sottomessa contro il maligno nell'esercizio della virtù.

[121]          Cfr R. Penna, I ritratti originali di Gesù Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria, vol. II,Paoline, Cinisello Balsamo 1999, pagg. 121 - 137

[122]          Ivi, pag. 132.

[123]          F. Santoro, cit. pagg. 65 - 66

[124]          Bolla Ad Fructus Uberes, questa raccolta da R. Benvenuto, San Francesco d’Assisi e San Francesco di Paola, in La voce del Santuario di Paola, a. LIV (1982) n. 9 – 10, pagg. 11 - 12

[125]          Lanovius (De La Noue) Chronicon generale ordinis Minimorum, Parigi 1635 (n n. VII – IX  - XXXVIII) qui citato in G. F. Morosini, Il carisma… op. cit. pag. 512 nota 33

[126]          Cfr. ad esempio i Testi 1, 17, 36, 43 al Processo Cosentino

[127]          Cost. Dommatica Dei Verbum n. 2

[128]          F. Marinelli, L'Eucarestia presenza del Risorto, EDB Bologna 1997

[129]          A. Bellantonio, Esemplarità di San Francesco di Paola nell’amore alla Vergine santissima, BUM XXXIV (1988), pag. 53

[130]          Questo episodio, sebbene comunemente appurato per certo da tutti i biografi, non viene menzionato in alcuno dei testi delle fonti dei Processi né dall’Anonimo.

 

TORNA ALLA PAGINA

Per maggiori informazioni scrivere a: phocas@francavillaangitola.com

Google