Benvenuti nel sito di Giuseppe Pungitore, dell'ing. Vincenzo Davoli, di Mimmo Aracri ed Antonio Limardi, punto d'incontro dei navigatori cibernetici che vogliono conoscere la storia del nostro meraviglioso paese, ricco di cultura e di tradizioni: in un viaggio nel tempo nei ruderi medioevali. Nella costruzione del sito, gli elementi che ci hanno spinto sono state la passione per il nostro paese e la volontà di farlo conoscere anche a chi è lontano, ripercorrendo le sue antiche strade.

 

  INTERVENTO   DELLA  DOTT. /SA  SONIA VAZZANO

     Quando si cerca di preparare una presentazione di un libro come questo, ci si interroga sempre su cosa dire all’inizio, perché sia chiaro da subito agli ascoltatori chi sta parlando o qual è il percorso e la scansione che si cercherà di seguire.
Io, vi dico da subito, che non procederò così.
Non ho percorsi, né scansioni da offrirvi nella mia lettura dì queste pagine. Vorrei solo raccontare emozioni: quelle che ho vissuto io leggendo questo libro e quelle soprattutto che ho immaginato fossero vive, sia nei protagonisti di queste pagine sia nell’intento dell’autore delle stesse.
Due cose mi hanno colpito in questi ultimi giorni, mentre cercavo di capire cosa mi sarebbe piaciuto di più dirvi e proprio da queste cercherò di partire.
Solo che la prima ve la dirò subito, mentre la seconda me la riservo per la fine di questo intervento.
E allora la prima è l’esplicita richiesta che l’ingegnere Davoli mi ha fatto per questa presentazione: mi ha chiesto di parlare delle donne che hanno vissuto la guerra; che non l’hanno vissuta sui campi di battaglia tradizionali, ma comunque sempre su veri campi di battaglia.
Perché è vero che c’è una guerra che gli uomini combattono in prima persona (e ora a dire il vero anche le donne...), ma c’è anche la guerra dell’attesa silenziosa, ma operante di chi i propri cari ce l’ha nel cuore, e rimane a casa, mentre li vede partire, senza poter far nulla. Senza sapere se li vedrà mai tornare, se potrà riabbracciarli, se conserveranno tra gli spari e le bombe il ricordo di una vita condivisa.
E allora alla richiesta di Davoli rispondo con la mia personale, credo, lettura un po’ trasversale di queste pagine, che va al di là delle righe che ho letto e che cerca di intrecciare spazi e tempi che non sono forse così espliciti o esplicitati.
E per questo comincio subito dalla nascita di questo libro. Che secondo me coincide un po’ con la traccia del mio intervento di questa sera.
Non so se Davoli ci ha mai pensato, o se se l’è mai chiesto veramente: ma queste pagine quando sono venute alla luce?
Io credo, quando l’autore, aveva appena 8 anni...
Ce lo racconta del resto lui stesso mentre parla della famiglia Meo. Il signor Giuseppe, ferroviere amico del papà, e la signora Giuseppina.
In uno dei suoi soggiorni presso questa famiglia di Paola, Davoli, in un pomeriggio, rimase stupito nell’osservare proprio Giuseppina, inginocchiata e assorta, in muta preghiera, di fronte ad una mensola, sulla quale era posata una lampada ad olio, la cui fiammella rischiarava un grande ritratto di un giovane in divisa da ufficiale. Era quello del figlio della famiglia Meo, Giorgio, sottotenente crotonese morto a Cefalonia.
E quella lampada, di cui parlava Davoli, mi ha fatto pensare ad un’altra lampada ad olio, che c’è in questo libro, e dalla quale vorrei partire. E’la lampada attraverso la quale si descrive il ritratto di una donna, Teresa, che un poeta francavillese,
Vittorio Torchia, ci ha regalato in alcuni suoi versi, peraltro ricordati dallo stesso Davoli, dal titolo La casa di Teresa:
«Due ante di ulivo seccate /e l’architrave pur esso / d’ulivo / la casa di Teresa chiudono. /
Se tiri una nocca annodata / si spalanca la porta / e un mondo ai vetri / della cristalliera vibra./
Ritratti di giovani e vecchi, / moderni ed antichi, / di vivi, di morti, di sposi, / di bimbi, e di soldati caduti illuminati / da una lampa accanto. /
La lampa d’olio d’oliva / ancora trattiene / le rare illusioni / di Teresa già vecchia / e minuta».
Ho scelto questi versi, perché mi ha commosso molto la figura di Teresa. Ve la racconto brevemente. E’ una “ragazza madre”. E già questa è una situazione che in un piccolo paese della Calabria poteva fare notizia a quei tempi, e forse anche ora... In guerra perde suo figlio Vincenzo, che non avendo un padre, assume come cognome, Russo, che è quello di sua madre. Ma Teresa non è solo una madre. Sul Carso, ad esempio, perde anche suo fratello, Vincenzo, e in Grecia, probabilmente, suo genero.
Teresa cosa rappresenta quindi per noi?
Io la definirei come la terza dimensione di queste pagine. E mi spiego.
 Alle coordinate dello spazio e del tempo che fin da subito sono chiare in un libro come questo si unisce una terza dimensione, che è quella di uno spazio senza tempo, se volete, o di un tempo senza uno spazio.
Non so se i fisici o i matematici sarebbero d’accordo con un linguaggio di questo tipo, ma è ciò a cui ho pensato da subito interrogandomi sulla figura delle donne che “accompagnavano” nei loro percorsi i militari in guerra.
E vorrei parlarvi di esse attraverso tre linguaggi metaforici diversi che le donne ritratte in queste pagine utilizzano per raccontare di se stesse e della vita dei loro cari: questi linguaggi sono l’immagine, la parola/lettera e la preghiera.

Un’immagine mi si è stampata subito nella mente: quella di Barbara, sorella di Domenico Farina. E’ una sorella che vede partire il proprio fratello per la guerra, con il suo zaino carico sulle spalle, allontanandosi a piedi per prendere il treno nella vicina stazione di Francavilla.
Cosa c’è nello sguardo carico di distacco di Barbara?
Paura, commozione, trepidazione, angoscia, speranza...
Sicuramente tutte queste cose insieme.
Ma di questa donna sapete cosa colpisce di più: il desiderio di
mantenere vivo il ricordo.
Ma quale ricordo?
 Certo, del fratello ci dice di custodire nel cuore i toni della voce e le care sembianze; ma, sapete, il suo sforzo a che cosa è davvero rivolto?
Ai suoi figli: perché ricordino lo zio partito per il fronte.
E allora, cosa fa? Fa preparare ad un fotografo uno di quelli che noi oggi chiameremo fotomontaggi e che ciascuno di noi un po’ abile con Photoshop può preparare anche da sé: prende una foto di suo fratello e la fa incastonare tra una sua foto e una della moglie.
Non che serva una foto per mantenere vivo il ricordo, ma di certo una fotografia è una condivisione per chi come noi non vive in prima persona una situazione, e che vogliamo rendere comunque partecipe dei nostri sguardi. E del nostro cuore, in ogni cosa che guardiamo. Barbara attraverso l’immagine preserva il ricordo del fratello.
E che l’immagine, come linguaggio fosse così importante, lo capiamo anche dalla consuetudine di qualche militare al fronte di spedire una sua fotografia alla moglie, perché i loro figli potessero vedere com’era fatto, visto che non lo avevano mai conosciuto.
Questo per farvi capire come le donne utilizzino l’immagine per comunicare i propri sentimenti.
Ma dalle immagini, dalle fotografie, è possibile anche capire qualcosa di più di queste donne?
Io credo di sì.
 Dalle fotografie che Davoli pubblica nel suo libro c’è ad esempio quella della famiglia del soldato Peppino Lazzaro in cui si svela da subito il ritratto della figlia.
Che, morto il padre, prende in carico tutta la famiglia.
Bada ai due giovani fratelli, si occupa delle faccende domestiche, esegue lavori di cucito, maglieria e ricamo (impegna perfino tutti i suoi averi per comprare una mitica Singer, la macchina da cucire che le darà da vivere), lavora nei campi. Fa, insomma, tutto quello, e anche di più, di ciò che un uomo in genere fa. E si vede che è una donna super...
 Poi c’è il secondo tipo di linguaggio metaforico, dal quale possiamo capire qualcosa di più di queste donne, che è quello della parola, della scrittura.
E qui sarebbe stato bello, ma forse quasi impossibile, recuperare le lettere che le donne scrivevano ai militari al fronte.
Cerchiamo però di intravvedere un po’ di quei contenuti in ciò che gli uomini scrivevano. Quando parlavano del loro senso del dovere, dell’anelito di ogni buon combattente, degli sfoghi per la vita militare, dura e a volte anche noiosa, della speranza per il ritorno.
La cosa che colpisce di più è che nella scrittura alle loro donne, fossero madri, mogli, sorelle, figlie..., i militari al fronte ritornavano bambini, si scoprivano poeti, diventavano grandi uomini.
 Non perché la guerra li rendesse grandi, ma perché nel racconto di quella loro grande esperienza riscoprivano se stessi, il senso vero delle cose, della vita e soprattutto della fede.
Sentite cosa scrive ad esempio Pasquale Scalese nella sua ultima lettera alla mamma Caterina:
«Iddio ci ha separato per tanto lungo tempo, ma Lui stesso penserà a riunirci facendoci dimenticare quel giorno in cui amaramente ci separammo. Vi penso sempre e sperando di potere ricevere almeno qualche vostro scritto bacio mio figlio e mia moglie e a te chiedo la santa benedizione».
Si parla in diverse lettere di questa “santa Benedizione”. E viene subito da pensare che la profondità di sentimenti e la delicatezza d’animo di uomini che spesso erano operai, o contadini..., veniva fuori proprio nel pensiero rivolto ad una donna. E qui i poeti del Duecento e del Trecento sorriderebbero se ci ascoltassero, convinti di quanto già e più volte avevano ripetuto nei loro versi.
E ancora, in una sorta di lettera-diario indirizzata a sua madre, così si esprimeva Antonio Muzzì:
«  E’ dolce sognare di morire fra le tue braccia, mamma».
Gli uomini poeti. La guerra faceva di uomini duri e il più delle volte analfabeti uomini capaci di riflessione interiore profonda.
 Perché spesso parliamo di maturità che cresce sui campi di battaglia, in un contesto in cui ci si sente “tutti uguali”, perché la guerra forse ci rende un po’ così, ma in realtà non è davvero cosi.
E anche i soldati lo sapevano.
Lo sapeva Giovanni Battista Limardi, il poeta di queste pagine che scrive con una dote che non è comune a tutti:
Così si rivolge alla madre:
«Mamma t’ho sognato... t’ho vista vecchia, sì... ma bella come una fata, la ruvida fronte ti bacio».
E alla sorella scrive:
«Da tanto lontano, il mio pensiero a te è rivolto; vedo la tua bella mano; rimango pensieroso, con le lacrime nel volto... Un solo pensiero mi offusca la mente; se ritorno per quel sentiero ove uniti trascorrevamo, sempre... Tu per mia parte da’ animo alla Mamma; assicurala di certo che il fratello tuo... Ritorna... Ritorno... per non allontanarmi più, finché Iddio non mi chiama per unirmi con mio fratello che sta lassù... Ma come quaggiù... così lassù prego per te, con fraterno amore, che ti amo di più...».
Le nostre donne sono madri, mogli e poi vedove, figlie.., e se anche sembra che si scriva più alle madri che alle mogli... in realtà si sta scrivendo alle donne. E basta. A chi rende la vita, anche quella in guerra, una vita diversa. Perché si sa, una casa senza una moglie o senza una madre, non è una casa completa. E forse ancor di più lontano da casa lo si sperimenta.
E mi viene qui da pensare ad una canzone che piaceva tanto a mia nonna e che mia mamma mi cantava spesso, che diceva:
«Mamma, son tanto felice, perché ritorno da te».
Le parole non sono però solo quelle scritte, ma anche quelle ascoltate...
Uno dei momenti che sicuramente queste donne avranno vissuto in prima persona sarà stato l’arrivo delle notizie dei militari al fronte. In alcuni casi erano notizie buone, nella lettura ad esempio delle liste dei deceduti in cui si sperava sempre di non udire il nome dei propri cari; in altri casi però le notizie delle morti, specie in combattimento, arrivavano presto a Francavilla, come ci racconta Davoli.
E alcune volte poteva succedere anche la cosa più spiacevole di tutte: che le donne fossero sole in casa ad accoglierle.
La notizia della morte di Vincenzo Attisani, ad esempio, avvenne proprio così. Nessun uomo era in casa, che potesse essere di sostegno e di conforto per la mamma Barbara, e per le sorelle Annita e Vittoria, e per la cognata Carmela, in quel momento in cui per la prima volta forse sperimentavano l’abbandono e lo smarrimento, nuovamente, dopo la partenza. Sapendo della morte del loro caro.
E in questi casi si faceva vivo da subito il desiderio di riavere almeno fra le braccia le spoglie dei loro cari su cui piangere. Se anche non bastava. E non c’era consolazione per tutta la vita, come in chi decideva di voler vestire sempre di nero in segno di rispetto per il proprio caro caduto in battaglia.
E ancora oggi, a Francavilla, quelle donne, vestite di nero, ci sono ancora...
Altre volte, poi, se anche la notizia veniva riferita ai familiari con tatto e cautela speciali, lasciava comunque un segno. La morte di Foca Attisani, per esempio, fu accolta dalla moglie Barbara al terzo mese di gravidanza; i suoi figli, uno di 3 anni e uno di 6 rimasero attoniti, la madre non si riprese quasi più e la stessa moglie nella sua abitazione osservò, ci racconta Davoli, un mese di lutto stretto sciogliendo la chioma dei capelli, disarmando il letto matrimoniale, staccandone testiera e pediera, poggiando i materassi sul pavimento.
Ma la vita continuava, e sei mesi dopo la morte del marito, Barbara partoriva il suo terzogenito.
E allora, che cosa rimaneva, nei cuori di questi uomini al fronte e di queste donne nella battaglia di ogni giorno, in una vita dura, da sole, senza padri, mariti e figli...
 
Forse, rimaneva solo la speranza, che nasceva dalla preghiera. La devozione alla Madonna delle Grazie, per esempio, accompagnava tanti dei militari francavillesi in guerra. Davoli ci racconta di affidamenti speciali di ogni uomo alla Vergine di quella chiesa ai piedi del paese, prima di partire, e di come le mogli custodissero nel cuore e raccontassero ai loro figli quella grande devozione che li svelava piccoli, eppure così grandi.
A Francavilla, ancora oggi, quella Madonna delle Grazie è al centro della venerazione di molti fedeli.
E qualche volta, quando nella memoria non rimaneva nulla, come per esempio nel caso di un soldato di fanteria chiamato Domenico Maida, nessuna notizia e nemmeno la moglie Maria ne aveva mai avute e di lui ricordava solamente che era partito con il suo reggimento dopo appena un mese di matrimonio, senza che le fosse comunicato il luogo in cui era stato inviato, il pensiero andava a quei santini che i combattenti portavano con loro in battaglia, e che spesso ritraevano quella Vergine delle Grazie alla quale chiedevano la speranza di un ritorno.
E allora non stupisce come don Gnocchi nel suo libro Cristo con gli alpini indirizzasse agli italiani che presero parte alla campagna di Russia l’esclamazione:
«Dio fu con loro ma gli uomini furono degni di Dio».
E non colpisce neanche che sulla tomba di un soldato ignoto, ci fosse incisa la frase, che Davoli riporta:
«Ogni mattina, mamma, ed ogni sera io sento l’eco della tua preghiera!».
E allora immagine, parole, preghiera.
Sono i segni delle donne che combatterono accanto ai loro uomini la Seconda Guerra Mondiale.
Le donne di ogni posto del mondo. Ma quelle che oggi celebriamo sono le donne di Calabria.
Le donne di una terra in cui, nonostante le difficoltà, fioriscono ancora emozioni. 

Le donne di una terra che una persona una volta mi ha descritto così in un dono di ascolto della mia realtà, della realtà che ho vissuto da figlia adottiva e che nel bene e nel male mi ha segnato, e della quale sono frutto anch’io, che stasera vi regalo, concludendo questo mio intervento.
«Cosa mi colpisce della Calabria? Il blu intenso del mare. La cordialità delle persone. I silenzi ruvidi della gente semplice. Gli odori della natura ancora selvatica che ha in sé maternamente la vita e la morte».
In quella maternità, fatta di vita e di morte, ci stanno le donne che hanno vissuto la guerra come gli uomini. Quelle che la vivono ogni giorno. E quelle che da ogni guerra danno agli uomini la forza per ricominciare. Anche dalle ferite
E allora ringrazio l’autore di questo libro perché mi ha dato l’opportunità di raccontare, da donna, pagine di guerra che in genere non sono solo pagine di uomini, ma solo pagine di vita. Di uomini e donne insieme.

 

ROMA   23  NOVEMBRE 2012                                                                        DOTT./SA      SONIA  VAZZANO                           

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